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«Quando la vita è solo un movimento del cuore, senza più contatto e partecipazione, allora non parliamo davvero di vita, non c’è più dignità. E quello è il momento di lasciar andare». Wilhelmine Schett, per tutti Mina Welby, è rimasta a fianco del marito Piergiorgio fino all’ultimo dei suoi giorni. E ora, dopo il parere del Comitato nazionale di Bioetica, che ha aperto alla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito in Italia, l’esponente dei Radicali ha una speranza di vincere la battaglia iniziata dall’uomo che ha amato tanto da aiutarlo a morire.
Cosa rappresenta per lei il parere del Cnb? Una gran cosa, per l’intero Paese. Ma lo è anche per la politica, perché il Comitato nazionale di Bioetica è un organo consultivo del governo e del Parlamento. Le Camere avevano 11 mesi di tempo per colmare, come richiesto dalla Consulta, il vuoto normativo sul fine vita. Ora è rimasto solo un mese e mezzo e con le vacanze di mezzo non se ne farà nulla. Ma questo parere ci dà una speranza.
Il Parlamento non è pronto? Non lo so. Noi dell’associazione “Sos eutanasia” avevamo chiesto che si riunisse prima della Consulta, che lo farà il 24 settembre, ma temo sarebbe soltanto un’occasione per litigare. Io chiedo che se ne parli davvero. Ci serve solo un ultimo articolo che consenta di scegliere la morta volontaria assistita. Potrebbe bastare una semplice aggiunta alla legge 219, ovvero quella sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento.
Ha visto disponibilità da parte della politica? Il Parlamento si è diviso. Mentre per la 219 abbiamo formato un intergruppo di 200 parlamentari, di qualsiasi estrazione partitica, questa volta sono appena 70. Non so se si tratta di paura.
Il Paese, invece, è pronto? La gente è confusa, perché non conosce bene la 219 e neanche molti politici, in realtà, l’hanno letta. Basterebbe sapere che il malato è al centro di questa legge, che non è sul morire, ma su come essere curati fino alla fine e sulla libertà di decidere come terminare la propria vita, laddove c’è la possibilità di avere le cure palliative che ci accompagnano verso un benessere possibile e di scegliere di essere addormentati e morire nel sonno. Le cure palliative non sono applicate in tutta Italia, ma solo a macchia di leopardo. Non abbiamo medici ben formati in questo senso e anche questi vuoti andrebbero colmati.
Cosa manca? Il coraggio di fare un passo in più, di mettersi nei panni delle famiglie, delle persone che provano gravissime sofferenze e per le quali, a volte, l’aiuto del medico serve solo a capire, insieme al malato, che non c’è altra scelta da fare che la somministrazione di una medicina che aiuti a morire. Noi dell’associazione, assieme a Marco Cappato, accompagniamo le persone in Svizzera quando è necessario e ce lo chiedono, oppure diamo loro le informazioni giuste. E lì veniamo in contatto con gravissime sofferenze.
Cosa le chiedono queste persone? A volte non sanno bene cosa vogliono. Quando si rivolgono a noi non diamo subito informazioni, ma chiediamo se hanno un buon contatto col proprio medico, se hanno pensato di contattare uno psicologo, perché tante volte questo manca ed è un problema. Tanti sono stati dirottati sul testamento biologico, sul consenso informato e anche su una programmazione delle proprie cure. Molti ci hanno ringraziati e sono contenti che sia andata così. Per altri, com’è stato per Dj Fabo o Davide Trentini, non c’era altro da fare. Così ci siamo presi anche la loro croce e li abbiamo accompagnati in Svizzera.
Com’è stato combattere la battaglia assieme a suo marito? Abbiamo avuto una vita bella lunga e felice, poi c’è stata la recrudescenza della distrofia muscolare e una difficoltà respiratoria grave. Quei due mesi di rianimazione hanno suscitato in lui davvero la necessità di essere aiutato a morire. È tornato a casa tracheotomizzato, ha ripreso a programmare la sua vita, perché a quei tempi non c’era altra possibilità. Ha contattato il Cnb, non per chiedere l’eutanasia, perché sapeva che non avrebbe mai avuto una legge simile, ma per una legge sulle disposizioni anticipate sui trattamenti, così che una persona potesse esprimere come voleva essere curata e, in caso, di poter morire. Ma tutto questo, a lui, non è servito. Così si è rivolto al Presidente della Repubblica, perché non ce la faceva più. Mi ha chiesto diverse volte di aiutarlo a morire, dandogli in un colpo solo tutte le pastiglie che prendeva per potersi addormentare, ma io non l’ho voluto fare.
Perché? Avevo paura che potesse non riuscire a morire e che restasse in stato vegetativo. Napolitano, dopo la lettera, invitò il Parlamento ad una riflessione, ma per mio marito ci fu solo ulteriore sofferenza. Quegli 88 giorni furono tremendi. Alla fine l’unica soluzione fu chiedere al giudice civile di poter essere sedato per poi staccare il respiratore. Il giudice, parlando con il suo medico, disse che avrebbe potuto farlo, ma il medico non era pronto. Così Piergiorgio ne scelse un altro, Mario Riccio.
Come fu per lei? È stato molto doloroso percorrere quella strada insieme a lui. Lo vedevo soffrire immensamente, ma fingeva non fosse così. Sapevo che era insopportabile.
Cercò di fermarlo? Gli chiesi: “mi vuoi proprio lasciare?”. Lui mi disse: “Mina, non ce la faccio più, non capisci?”. Allora ho capito e ho deciso di stare dalla sua parte. Non che prima non lo fossi, ma in un piccolo spazio tutto mio mi reggevo sulla speranza che lui ci ripensasse. Alla fine, invece, ho detto sì, sono con te, affinché tu possa morire tranquillo.
Dopo la sua morte ha continuato a combattere... Me l’ha chiesto Piergiorgio. La mia battaglia era arrivare ad una legge sulle disposizioni anticipate ma anche sul fine vita tout court, sull’eutanasia e sul suicidio assistito. Abbiamo dovuto fare tutto passo passo. Dopo la morte di Piergiorgio si è cercato di fare una legge sul testamento biologico, ma il governo è caduto e abbiamo fatto una grande fatica con il ddl Calabrò, secondo cui idratazione e alimentazione non sono da considerarsi cure sanitarie, pensato per mantenere Eluana viva, per modo di dire. Perché il suo corpo respirava, digeriva, ma Eluana non c’era più.
Cos’è per lei “non vita”? Solo una persona può dire della sua vita che è dignitosa o non lo è più. Nessuno può e deve dirlo per altri. Quindi lasciamo andare chi non vuole più vivere. Questo voleva Piergiorgio e a questo spero di poter arrivare.