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Francesco Storace - ex rampollo, nel Msi, di Almirante e poi di Gianfranco Fini - l’altro giorno ha rilasciato un commento sul suo vecchio compagno d’armi che mi ha lasciato impietrito. Ha detto a Fini: «Spàrati».
Fini e Storace vengono tutti e due dal “Fronte della Gioventù” che negli anni ottanta era la potente organizzazione dei giovani neofascisti. Fini era il capo, Storace uno dei suoi luogotenenti. Poi Fini diventò il numero 2 di Almirante, e infine prese lui la guida del partito. E promosse Storace, Gasparri, Alemanno e altri giovani di quella generazione, appena un po’ più giovane della sua. Storace da quel momento assunse il ruolo di personaggio della politica nazionale, anche se per diversi anni continuò a veleggiare all’ombra del capo. Fu deputato, ministro, governatore. Poi, come sapete, Nel 2010 Fini ruppe con Berlusconi, e Storace ruppe con Fini. «Spàrati» disse Storace, novello maramaldo
In politica è così: le biografie umane e le biografie politiche si intrecciano, ma anche si spezzano e si dividono. È naturale, è giusto. Bisogna vedere come si spezzano. E bisogna vedere se è giusto che la politica cancelli il senso dell’umanità, della civiltà. «Spàrati». Che commento è? Che struttura umana c’è dietro?
All’inizio della sua carriera, Francesco Storace veniva preso in giro per via del suo nome. Che assomigliava tanto, e differiva solo per una vocale da quello di Starace, uno dei gerarchi più noti di Mussolini. Starace si chiamava Achille, fu portato alla gloria e al potere da Mussolini ma poi abbandonato. Era il segretario del partito nazionale fascista, inventò, pare, il saluto romano e il salto nel cerchio di fuoco e il sabato fascista. Nel 39 però fu allontanato e mandato a ricoprire un incarico minore, il capo della milizia volontaria; poi, due anni dopo, fu allontanato anche da lì e si ritirò a vita privata. Nell’anonimato. Con due lire da parte, senza stipendio, in un appartamentino alla periferia di Milano. Lo aiutava la figlia.
Anonimato ma fino a un certo punto. Il 28 aprile del 1945 Milano era stata liberata da poco. Starace, come ogni mattina, scese in strada in tutta a fare jogging. Qualcuno lo riconobbe e lo indicò ai partigiani. Catturato, portato al Politecnico, processo sommario e nel giro di un’ora condanna a morte. Lo portarono su un camion scoperto in giro per tutta Milano, alla gogna, e poi fu scaricato a piazzale Loreto, davanti ai cadaveri di Mussolini, di Pavolini di Bombacci e degli altri gerarchi, appesi a testa in giù alla pensilina del benzinaio. Gli puntarono i fucili contro e gli chiesero, sbeffeggiandolo: «Ora cosa hai da dire al tuo duce?». Starace, che dal duce era stato abbandonato tanti anni prima, levò il braccio nel saluto romano e gridò, solenne: «Onore al duce!». Loro spararono e lo uccisero, poi appesero anche lui per i piedi.
Nessun paragone, per carità. Però bisogna dire che nella storia ci sono esempi molto diversi tra loro di quello che è il senso della riconoscenza verso chi ti ha promosso, ti ha aiutato. Il senso del dovere, dell’umanità.
Poi c’è un’altra questione: la facilità ad ossequiare chi ha successo e cambiare drasticamente atteggiamento verso chi è caduto a terra. Mi ricordo, da quando andavo a scuola, che Manzoni parlava di servo encomio e di codardo oltraggio. Diceva, mi pare, che erano due facce di una moneta sola. E mi ricordo anche della storia di un certo comandante Maramaldo.
Era un capitano di ventura vissuto nella metà cinquecento, diventato famosissimo per avere ucciso il capitano Ferrucci, fiorentino, che era stato già sconfitto e giaceva ferito in modo grave. Ferrucci, prima di spirare, pronunciò contro di lui, che lo uccideva, una frase diventata celeberrima: «Vile, tu uccidi un uomo morto». E da allora maramaldo vuol dire quello: vincitore vigliacco. In questi giorni, sul caso Fini, di maramaldi è pieno il dibattito pubblico. Mica solo Storace: basta dare un’occhiata ai giornali di destra, che una volta, tanti anni fa, Fini lo osannavano.
La asperrima durezza delle parole ( anzi: della parola) di Storace ripropone un tema che a me sembra attuale e molto vivo. Quello del linguaggio dell’odio in politica. «Spàrati» è un esempio fulminante – e macabro – di questo linguaggio. Su questo tema, tra l’altro, si sta preparando un evento di notevole importanza: il G7 delle avvocature che si terrà in settembre a Roma ( sotto gli auspici della Presidenza italiana del G7, come si dice con la formula ufficiale). Torneremo a parlarne nei prossimi giorni. Intanto vi annunciamo che si terrà, che parteciperanno i rappresentanti delle avvocature delle sette principali potenze occidentali, che avrà per titolo «Sicurezza e linguaggio dell’odio».
È un tema secondario del dibattito pubblico? Secondo me no. Per una ragione semplice: che l’odio sembra avere preso il posto del conflitto nello svolgersi del confronto o della battaglia politica e anche di quella intellettuale. La “sostanza” del conflitto, che nei decenni passati è stato altissimo - e che si svolgeva sulla differenza netta delle idee, dei punti di vista, dei programmi - è stato sostituito dalla sua “forma”, e cioè dall’odio puro e semplice, allo stato brado, senza oggetto, senza obiettivo, fine a se stesso.
E che infatti si esprime e si avvita nel linguaggio. Creando persino nuova semantica, nuove espressioni, nuovi automatismi, nei quali il conflitto esplode senza più il proprio contenuto, ma semplicemente esagerando, riproducendo e moltiplicando il proprio apparire. Il conflitto perde il suo carattere rivoluzionario, o riformista, o reazionario, e diventa estetica pura. L’odio è sempre stato una parte del conflitto. Ancora pochi anni fa un poeta e una mente raffinata come il poeta Edoardo Sanguineti sosteneva la giustezza dell’odio di classe. La sua necessità. Era una posizione molto discutibile e sulla quale, infatti, si aprì un dissenso forte anche a sinistra. Però l’odio di classe di Sanguineti era un aspetto del conflitto, della lotta, un attributo: non era l’essenza del conflitto, e non giustificava se stesso in quanto “passione” ma in quanto prodotto di uno scontro politico.
Oggi l’odio non è più al servizio della politica, non è più un soldato: è lui il signore. E sta diventando il signore anche della cultura. Con la conseguenza della scomparsa dell’intellettualità. Sostituita da un piccolo esercito composto da polemisti e da una pattuglietta estremista di magistrati. E della scomparsa del pensiero, sostituito dall’anatema, dall’insulto.
Naturalmente a chi denuncia il trionfo dell’odio e della sua lingua si può opporre una obiezione molto robusta. Trent’anni fa si uccideva, nel fare lotta politica, oggi no.
Questo sicuramente è vero ed è il segno di un grande avanzamento della civiltà liberale. Non solo non si uccide più nella lotta politica, ma si uccide molto meno anche nella vita sociale e persino la malavita è diventata molto, molto meno violenta. Però i due fenomeni ( la caduta della violenza e la caduta del pensiero e della intellettualità) a me non paiono in nessun modo né paralleli né collegati. L’aumento dell’odio nel linguaggio comune e nel linguaggio politico non mi sembra un fenomeno di compensazione della mancata violenza.
Mi sembra piuttosto un surrogato del pensiero e della polemica culturale. Ignorare questo fenomeno, contentandosi del fatto che la quantità di violenza è in netta decrescita, potrebbe essere un abbaglio grave. Il linguaggio dell’odio, proprio perché chiude la possibilità di crescita di una nuova generazione intellettuale, rischia di diventare un palla al piede per la nostra civiltà. Un blocco. Cosa possiamo fare per rimuoverlo? E per rimettere in moto un processo virtuoso di ricerca e di polemica politica e intellettuale? E quindi per restituire alla nuova generazione la possibilità di costituirsi in generazione intellettuale, uscendo dalle sabbie mobile dell’invettiva?
Gli avvocati, convocando su questo tema il loro G7 si offrono come protagonisti. È un atto di coraggio. Sono un pezzo del ceto intellettuale e possono portare un contributo molto importante. Però si devono muovere anche i giornalisti e anche i politici. Finché continueranno a pensare che il modo migliore per fare lotta politica è quello di tirare monetine addosso all’avversario, è del tutto inutile parlare di cultura, o anche di battaglia politica. E dovremo accontentarci di avere Scansi e Davigo al posto di Pasolini e Leo Valiani.