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«Nessun ritorno a Mani Pulite». Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia nel difficile biennio tra il 1991 e il 1993, analizza le inchieste che hanno gettato nel caos le amministrazioni di Milano e Roma, a partire dal rapporto sempre teso tra politica e magistratura.
Onorevole, traballano sia Milano che Roma: con Beppe Sala autosospeso e il braccio destro della sindaca Virginia Raggi arrestato. Ci sono somiglianze con il 1992 di Mani Pulite?
Somiglianze non direi. Non vedo un’ondata di arresti scatenati da metodi di indagine alla Di Pietro, in cui il motto era «o parli o butto la chiave», con una catena di delazioni a comando provocate dalla carcerazione preventiva. Vedo però uno stillicidio continuo di indagini e accuse e una particolare devozione della nostra magistratura alle indagini sulla pubblica amministrazione. Per un verso bisogna rallegrarsene, per altro verso suscita qualche interrogativo, a fronte della mole di reati, anche più gravi, non perseguiti.
Partiamo dal caso– Roma. L’amministrazione grillina rischia di crollare sotto il peso delle dimissioni di Paola Muraro e l’arresto di Raffaele Marra. Che fine ha fatto lo slogan “onestà– onestà”?
Come le volpi finiscono in pellicceria, così i moralisti finiscono alla gogna. S’è già visto in passato: quelli che sbandieravano il partito degli onesti poi finirono nel tritacarne giudiziario e questo è vero anche oggi.
Chiunque faccia dell’onestà il principale se non l’unico motivo della propria discesa politica in campo nasconde un’assenza di programmi più approfonditi. L’onestà è una precondizione e la politica è un mestiere talmente difficile e insidioso che pensare di cavarsela semplicemente restando onesti è una pia illusione.
Poi anche Milano, la sua città: Expo è stato uno dei più sbandierati successi del governo Renzi e ora rischia di essere la pietra tombale del Comune, faticosamente mantenuto dal Pd. Quali equilibri si stanno muovendo?
La procura aveva archiviato il caso Sala, in cui non si era trovata traccia di tangenti. Per dirla con Ilda Boccassini, non c’era odor di «piccioli», ma solo una gran fretta, che ha fatto compiere anomalie. Sembra infatti che sia stato retrodatato un documento di indizione di una gara d’appalto, per poter rientrare nei termini di legge. Nei giorni di Expo, infatti, ricordo grande frenesia per arrivare con le opere compiute all’inaugurazione, smentendo i gufi del «non ce la farete mai».
Invece la procura generale ha ritenuto di riaprire l’inchiesta...
Che la procura generale abbia ritenuto di riaprire un caso archiviato dalla procura della Repubblica e come questo si inserisca nella lotta devastante della magistratura milanese, purtroppo è nelle carte. Del resto, è stato lo stesso Csm a tentare di sedare le lotte, legittimando Edmondo Bruti Liberati e trasferendo Alfredo Robledo. Io temo che l’iscrizione di Sala ne registro degli indagati possa essere un danno collaterale provocato da quel conflitto. Del resto, i conflitti tra magistrati sono i più accaniti e avvelenati, perché tutte le parti brandiscono il diritto, indossano la toga e sono ammantati di intransigenza assoluta, impuntata su dettagli e cavilli.
Una magistratura milanese, dunque, molto diversa da quella di Mani Pulite?
Decisamente. Allora c’era una compattezza incredibile nel pool di Mani Pulite: anche quando – come poi si scoprirà – i giudici non erano d’accordo uno con l’altro, erano però tutti saldi nel far fronte comune contro l’opinione pubblica rispetto ai politici.
Ma anche oggi si ripete, però, un dualismo guerriero tra magistratura e politica?
Questa è la visione manichea di Piercamillo Davigo, che parla di lotta del bene contro il male, in cui i magistrati sono tutti buoni e politici tutti corrotti.
Lei, invece, come la pensa?
Io credo ci sia la somma di due mali. E’ vero che la corruzione in Italia alligna più che altrove che questo merita indagini e sanzioni. Se però nelle indagini si cede a eccessi giustizialisti, ecco che si somma male ad altro male: la corruzione diffusa e la repressione arbitraria.
Torna, dunque, al centro il rapporto difficile tra politica a tutti i livelli e magistratura.
Io credo che, di questo, il caso di Beppe Sala sia emblematico. Ancora non si sa con certezza se abbia ricevuto un avviso di garanzia e tutto è nato da indiscrezioni sui giornali. Quando dalle procure trapelano notizie riservate, storcendo il principio della tutela dell’indagato e del suo diritto alla riservatezza, ecco che si è già compiuto un abuso grave. Ma la violazione del segreto istruttorio è diventata un passatempo, ed anzi è strano quando ciò non avviene. Se si distrugge la reputazione dell’imputato nella fase precedente l’indagine formale, però, si altera il corso della giustizia e questo è il punto cruciale e che più interessa i rapporti tra politica e magistratura. La sentenza, infatti, può anche essere di assoluzione, ma intanto la carriera politica è già bella che finita.
L’autosospensione di Sala è una scelta politica che deriva da questa distorsione del sistema?
Io credo che lui abbia fatto una scelta opportuna. La sua decisione fungerà da sollecito alla procura generale, perché si decida in fretta a formalizzare le accuse o archiviarle.
Il caso Roma, invece, ha delle implicazioni diverse. Raggi è sotto scacco?
L’elemento politico di questa vicenda lo ha colto bene Giorgia Meloni, che si è chiesta se ci troviamo di fronte a incompetenza assoluta oppure a stupida malizia della sindaca Raggi. Perché ha insistito a scegliere personaggi che hanno fatto il loro curriculum amministrativo nelle passate gestioni, che in pubblico lei è stata la prima a condannare? Questo a me pare incomprensibile. Noi siamo osservatori estranei, ma anche dal suo stesso movimento in tanti l’hanno messa in guardia. La sua è stata ostinazione, ma del resto questo è un periodo in cui va di moda per sindaci ed ex sindaci non ascoltare i consigli.
Un riferimento a Matteo Renzi?
Non ho fatto che leggere elogi per la cosiddetta «determinazione» di Matteo Renzi. Eppure io credo che ostinarsi sia un errore, non certo una qualità. E di qualità Renzi ne avrebbe molte altre.