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L'ex ministro della Giustizia Marta Cartabia
Prima di essere ministra guardasigilli, Marta Cartabia è stata presidente della Consulta. E nel tempo tra i due incarichi, ha pubblicato un libro che ha contribuito a cambiare la cultura del carcere, “Un’altra storia inizia qui”, scritto col criminologo Adolfo Ceretti. Una testimonianza che raccoglie la lezione di Carlo Maria Martini, l’esperienza della spiritualità cristiana messa di fronte al dolore della pena, della reclusione. Che Papa Francesco e Marta Cartabia si ritrovassero uniti nella stessa convinzione, nella stessa ostinata affermazione della pietà, dell’umanità che deve sempre sorreggere il sistema penitenziario, era naturale. Ed è successo anche materialmente grazie al rito della lavanda dei piedi, al gesto che il Santo Padre ha virtualmente ripetuto anche a quattro giorni dalla fine, quando si è presentato fra i reclusi di Regina Coeli, pur privo ormai delle forze per chinarsi un’ultima volta.
Presidente Cartabia, ha un ricordo personale, forte, di Papa Francesco? Le va di raccontare qualche episodio o anche semplicemente una convinzione che questo Pontificato ha scosso dentro di lei?
Francesco ci ha abituati alle sue visite in carcere. Ogni anno, il pomeriggio del Giovedì Santo, si recava in un istituto penitenziario per la lavanda dei piedi. Anche quest’anno ha visitato il carcere di Regina Coeli per Pasqua, anche se non era più in condizioni di fare la lavanda dei piedi. Nel 2022 ho assistito personalmente a uno di questi momenti. Eravamo a Civitavecchia ed erano state prescelte alcune donne per ricevere quel gesto. Si erano preparate con cura. Avevano scelto i loro vestiti migliori. Si erano acconciate al meglio i capelli. Le mani curate, lo smalto sulle unghie. Una di loro era gravemente disabile, ma le compagne l’assistevano in tutto perché potesse partecipare. L’attesa dell’arrivo del Papa era piena di trepidazione per tutti. E poi, mentre lui si chinava su ciascuna di quelle donne, su ciascuno di quei piedi, tutte piangevano di commozione. La commozione di chi si sente guardato. La commozione di chi riceve una attenzione immeritata. La commozione di chi riscopre la sua dignità.
Se c’è qualcosa di veramente cristiano, è in questa scena.
Alla fine della celebrazione ci siamo salutati personalmente: il Pontefice mi ha ringraziato per un piccolo mio libro che gli avevo fatto avere e ha commentato il titolo “Filtrerà sempre un raggio di sole”. Il titolo è una frase di Eugenio Perucatti, uno straordinario direttore del carcere di Santo Stefano, a Ventotene, ormai chiuso da tempo, che avevo visitato alcuni mesi prima, e il piccolo libro racconta la sua storia. Il Papa era stato molto colpito da quelle poche pagine. Il titolo riecheggiava uno dei suoi più grandi insegnamenti: quante volte ha ripetuto che il carcere deve avere sempre avere una finestra, un orizzonte, una speranza.
E invece, degli ultimi giorni, colpisce che il mondo secolarizzato, soprattutto la società, la politica e il sistema mediatico occidentali, scoprano improvvisamente la centralità della Chiesa e del cattolicesimo: c’è da temere che l’attenzione, legata allo straordinario carisma di Francesco, sia un sussulto solo effimero o pensa che l’emozione di questi giorni possa mantenere vivo, anche dopo, lo sguardo verso il messaggio della Chiesa? E c’è secondo lei un nesso tra la possibilità di conservare nella coscienza collettiva il pensiero di Francesco e la capacità della Chiesa di proseguire nel percorso di rinnovamento interno?
Ben vengano anche i sussulti emotivi, se sono una occasione per innescare domande profonde in ciascuno, se aiutano a immergersi nelle ragioni ultime della sua testimonianza e a interrogare se stessi alla luce dell’eredità umana e spirituale che Papa Francesco ha lasciato a tutto il mondo. Francesco colpiva per la sua umanità. “Pronto? Sono Papa Francesco”: quante persone hanno ricevuto personalmente, nascostamente, anche senza il clamore mediatico di alcuni casi noti, un segno di attenzione in replica a una lettera, o in un momento di difficoltà? Tutti, credenti e non credenti, rimanevano colpiti dai suoi gesti di attenzione alle persone, dal suo bisogno di stare in mezzo alla gente, fino all’ultimo giorno, con l’uscita a sorpresa in piazza San Pietro la domenica di Pasqua. La Chiesa continuerà a colpire e ad essere un punto di riferimento per tutti nella misura in cui saprà parlare all’umanità di ciascuno. Ai bisogni, alle inquietudini, alle domande di senso che ogni uomo e ogni donna si porta dentro di sé.
L’interrogativo sulla capacità di raccogliere – e di riproporre, come lei giustamente auspica – l’eredità di Francesco risuona forte per alcune delle questioni che il Papa ha trattato con più tenacia, certamente per la pena e il carcere. Crede ci sia una possibilità di conservare quel messaggio nella consapevolezza collettiva, quanto meno in Italia, dove il tema della detenzione è particolarmente delicato?
Quando Francesco entrava in carcere ripeteva una domanda che, ad ascoltarla bene, è davvero sconvolgente: “Perché loro e non io?”. Chi di noi avrebbe il coraggio di farsi una domanda simile? Chi mai avrebbe il coraggio di esternarla pubblicamente? È una domanda che può sorgere solo in chi guarda all’altro per la comune umanità prima di ogni altra considerazione. È da questo sguardo che può ripartire ogni vita e può ripartire anche una nuova riflessione pubblica e condivisa sulla punizione, sul carcere e su tutti i suoi problemi. Senza contrapporre le ragioni della sicurezza a quelle dell’umanità della pena. Perché chi ha responsabilità dentro il carcere lo sa bene che “un carcere più umano è anche un carcere più sicuro”, come mi ha ricordato un ispettore della polizia penitenziaria di un istituto di pena milanese che ho visitato di recente.