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Nonostante colpiscano le terribili immagini delle violenze compiute dai ragazzi, l’indifferenza assordante che sembra circondarle e la solitudine disperata del pensionato morto a Manduria, è un articolo che non vuole rinunciare alla presunzione di innocenza e alla convinzione che i fatti debbano essere valutati da un tribunale e non dai giudici improvvisati ( e crudeli) del circo mediatico. Nessuna giustificazione, ma la volontà di capire e mantenere ferma la barra del diritto. In questi giorni, sui media e sui social, si è invece fatto a gara a chi per primo scagliava la prima pietra, a chi puntava il dito contro questi ragazzi considerati non persone ma mostri, dei predestinati al crimine, dei reietti da rinchiudere in un carcere e buttare la chiave. Per sempre. Si risponde alla violenza con altra violenza, senza porsi nessuna domanda, senza voler capire, senza voler andare al di là della richiesta di punizione. Ma se l’opinione pubblica pensa queste cose, se il pensiero dominante ha una idea del carcere che niente ha a che fare con l’articolo 27 della Costituzione, come pensiamo di costruire un mondo migliore, un mondo dove queste cose non avvengano mai più o avvengano sempre di meno?
Viene in mente il film Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Una gang di giovanissimi semina terrore in una città del futuro per provare emozioni forti. Il loro leader viene catturato e sottoposto alla cura Ludovico: non si cerca di convincere Alex che la violenza sia sbagliata, a capire il male che ha fatto, ma lo si induce attraverso scene di violenza a sviluppare una sorta di fastidio, un riflesso condizionato che non ha niente a che vedere con la consapevolezza. Finito il programma di “rieducazione” torna nella società ma nessuno lo ha perdonato e viene a sua volta maltrattato. L’unico che lo accoglie è lo scrittore diventato paralitico per colpa sua, il quale capito chi è si vendica con altrettanta brutalità. Alex entra in coma e quando riprende conoscenza accetta di entrare a far parte delle forze dell’ordine. A quel punto può riprendere liberamente a coltivare e praticare la sua aspirazione alla violenza. Con i ragazzi di Manduria ci stiamo comportando allo stesso modo. Non ci interroghiamo sulle nostre responsabilità, non cerchiamo di capire cosa sia successo, perché sia successo, non contempliamo l’idea che possano essere innocenti o che se condannati possano rifarsi una vita. Abbiamo deciso: sono colpevoli e lo saranno per tutta la vita. Pensiamo a linciarli, a mostrare la nostra indignazione, costruiamo l’immagine del mostro perché così ce ne laviamo le mani: quell’orrore non ci tocca, non riguarda la società di cui tutti facciamo parte. Ma, come in Arancia meccanica, se alla violenza rispondiamo con la violenza, se impediamo a colui che ha sbagliato - al di là del codice penale - di rifarsi una vita, generiamo a nostra volta violenza e creiamo un circolo vizioso che è difficile interrompere.
Fëdor Dostoevskij in Delitto e castigo racconta di un giovane che organizza e compie l’omicidio di una vecchia usuraia, a cui segue l’assassinio della sorella più piccola della vittima. Il grande scrittore russo, che pochi sanno ma si ispira a Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, ci fa entrare nella testa dell’assassino, nel suo travaglio e ci racconta il perdono che una giovane donna compie nei suoi confronti restituendogli la possibilità di salvarsi. La prima edizione è del 1866, eppure ancora oggi quei temi restano centrali, più che mai centrali. Perché sempre più si pone la questione di come la civiltà si definisca rispondendo ai crimini non con la vendetta, ma con il diritto, non con la legge dell’occhio per occhio, ma con la possibilità di perdonare, di mettere l’altro nelle condizioni che cambi. Ai giudici che hanno deciso che i ragazzi restino in carcere, perché le famiglie non li sanno educare, oltre ai forti dubbi su questo uso della custodia cautelare, verrebbe da chiedere se davvero sono convinti che il carcere, questo carcere possa essere una risposta.