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La sindrome Hikikomori, ovvero dei “giovani segregati in casa” ha un chiaro sapore nipponico e descrive la condizione di quei giovani che, progressivamente, non escono più dalla loro stanza, non si lavano e chiedono che il cibo sia lasciato davanti alla porta della loro camera. La parola Hikikomori significa isolarsi, chiudersi, ritirarsi e, tradotto dall’inglese, ritiro sociale ( social withdrawal). La cosa interessante è che il giovane Hikikomori non si aspetta aiuto da nessuno e, paradossalmente, non ha bisogno di aiuto. Si calcola che in Giappone gli adolescenti Hikikomori siano circa un milione ( stima in difetto), cioè il 2 % dei giovani e l’ 1 % della intera popolazione.
I sintomi che derivano da un protratto isolamento vanno dalla paranoia alla agorafobia, dalla inversione del ritmo sonno/ veglia ( ritmo circadiano) ai comportamenti regressivi. Naturalmente un fattore di gravità è costituito dalla sospensione degli studi, delle attività lavorative e sportive. Il ritirarsi, il nascondersi potrebbe costituire una risposta ad un sentimento di vergogna narcisistica. Sparire dallo sguardo dell’altro costituisce una soluzione rispetto all’enorme peso delle emozioni che in adolescenza può raggiungere un indice insopportabile. L’impiego intensivo di Internet costituisce, paradossalmente, un rifugio in cui nascondersi, un “vedere senza essere visti”. Ma se non si è visti la vergogna è destinata a crescere incrementando un sentimento di sé totalmente fragile e vulnerabile.
Qualche tempo fa, mi pare di ricordare nel corso della estate del 2017, estate particolarmente calda e afosa, mi capitò di essere chiamato per un intervento psichiatrico urgente. La signora che mi rispose al telefono era la madre del paziente, Fabio, di venti anni e da tre chiuso in casa e fortemente dipendente da Internet. La donna era molto angosciata anche perché, separata dal marito da cinque anni, si era sentita molto sola nel dover affrontare un disagio mentale grave, ma per nulla clamoroso.
In effetti Fabio si era ritirato dalla frequenza scolastica e, chiuso in casa, aveva continuato a studiare per conto proprio grazie anche alla “copertura” di un istituto scolastico privato che garantiva il recupero degli anni scolastici persi. Così una delle sue ultime uscite da casa era avvenuta un anno prima, in occasione degli esami brillantemente superati che gli avevano permesso di iscriversi all’ultimo anno del corso psicopedagogico.
L’ultima uscita era avvenuta tre settimane prima, quando aveva affrontato la prova scritta di italiano per l’esame di maturità. Da allora, tuttavia, non era più uscito da casa, malgrado le pressioni esercitate dalla madre, da un paio di zie e da una amica di famiglia. La chiamata al 118 psichiatrico era scaturita da un momento di esasperazione che aveva portato Fabio a mandare in frantumi la sua tazza da thè preferita.
Il ragazzo che si presentò a me, alla psicologa e ai due infermieri della ambulanza non aveva nessun tratto tipico della persona fuori di sé, delirante o dissociata, a parte l’evidente magrezza e pallore. Fummo noi ad essere interrogati da lui con una serie di domande in qualche modo imbarazzanti che qui trascrivo anche perché hanno un sapore vagamente comico e surreale. “Chi siete?” “Siamo gli operatori del 118 psichiatrico”. “E lei chi è?”. “Sono uno psichiatra”. “Mi sembra poco probabile. Comunque perché siete qui?”. “Ci ha chiamato sua madre”. “Perché? Se lo posso sapere..”. “Perché lei sta male… ha perfino rotto una tazza”. Confesso che nel dare questa risposta mi sentii veramente un idiota. “E perché ciò sarebbe grave?”.
A questo punto giocai la mia ultima carta. “Perché, di fatto, anche se non sembra lei sta molto male. Non esce da casa da anni e non è riuscito a sostenere gli esami di maturità, anche se si vede subito che è un ragazzo colto e intelligente”. “Ma questo fatto è, se mi permette, una scelta insindacabile e poi da quale patologia sarei affetto?”. “Lei ha una tipica sindrome Hikikomori. La conosce per caso?”. Fabio, se possibile, impallidì ulteriormente e mormorò: “Sì. Dove devo andare?”. “Venga con noi.”
A questo punto Fabio uscì quasi di corsa da casa e si precipitò giù per le scale raggiungendo prima di noi l’ambulanza. Confesso che temetti che volesse fuggire o, addirittura metterla in moto ( scoprii, del resto, che gli infermieri avevano lasciato le chiavi infilate nel cruscotto. Invece Fabio, buono buono e, direi, “sollevato” si sedette sulla poltroncina accanto al lettino e si mise anche la cintura di sicurezza. Gli infermieri arrivarono, arrancando, per ultimi. Perplesso, uno dei due mi chiese: “Ma che ja detto, dottò?”
* Psicologo e psicoterapeuta