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Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 09-01-2024 Roma - Politica - Senato, Commissione affari costituzionali , riforma premierato - Nella foto: Audizione informale del Prof Sabino Cassese sul progetto di riforma del premierato davanti alla Commissione Affari Costituzionali January 09, 2024 Roma - Politics - Senate, Costitutional Affairs Committee, premiership reform - In the photo: Informal hearing by Prof Sabino Cassese on the premiership reform project before the Costututional Affairs Committee
«Non bisogna dimenticare che l’aggressività penale è spesso dovuta ad una concezione sbagliata della giustizia come controllo della virtù. Né bisogna dimenticare gli effetti prodotti da tale aggressività». Proprio per questo motivo «le misure cautelari debbono essere proporzionate: sono scelte da organi di giustizia, ma non sono ancora giustizia». A dirlo è Sabino Cassese, giurista, già ministro della Funzione pubblica e giudice emerito della Corte costituzionale, che ha redatto, nelle scorse settimane, un parere per la difesa di Giovanni Toti, l’ex presidente della Regione Liguria rinviato a giudizio per corruzione che ha trascorso tre mesi ai domiciliari. Una misura cautelare revocata solo dopo le dimissioni dalla carica di governatore, spingendo molti a parlare di «ricatto» della magistratura. Proprio per questa vicenda il ministro Matteo Salvini, nei giorni scorsi, ha ipotizzato l’esigenza di uno «scudo» legislativo per i governatori. «Credo sia giusto pensarci - aveva affermato il leader della Lega in un’intervista a La Verità -. A Genova l’invasione di campo di una magistratura politicizzata è stata clamorosa e preoccupante, inaccettabile. È stato liberato solo quando ha scelto di dimettersi».
Professore, Matteo Salvini ha proposto, prendendo spunto dal caso Toti, uno scudo penale per i governatori e i sindaci. Cosa ne pensa di questa proposta? È davvero necessario “proteggere” i vertici delle amministrazioni locali?
Per rispondere a questa domanda, bisogna fare un passo indietro e ricordare quello che c’era scritto nella Costituzione del 1948, all’articolo 68, che fu modificato nel 1993. La versione originaria dell’articolo 68 prevedeva un regime di immunità del personale politico, riferito ai membri del Parlamento. Disponeva che, senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale. Eguale autorizzazione era richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile. A partire dal 1993, l’autorizzazione è prevista per limitazioni minori e cioè per perquisizione personale o domiciliare e per intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e per sequestro di corrispondenza. Questa era la linea di demarcazione tra politica e giustizia, che è stata poi modificata.
Perché ci dovrebbe essere differenza tra questo tipo di amministratori e altri?
Dopo il 1993, vi sono stati tre cambiamenti importanti. Il primo riguarda la moltiplicazione degli interventi della magistratura, in particolare delle procure, con riguardo al personale politico e amministrativo. Il secondo consiste nell’attribuzione di una maggior quantità di compiti a livello regionale e locale, compiti che riguardano scelte di indirizzo e che richiedono decisioni politiche, cioè ponderazioni di interessi pubblici, con accentuata discrezionalità. Il terzo la moltiplicazione dei controllori pubblici, che insistono nello stesso campo: accanto ai giudici amministrativi e ai magistrati contabili, l’Autorità anticorruzione.
Le voci critiche, soprattutto a sinistra, non si sono fatte attendere: c’è chi parla di ritorno del lodo Alfano e di privilegi per i colletti bianchi. È davvero così?
In un’arena politica come quella italiana, ce lo si poteva aspettare. Il punto critico riguarda l’equilibrio tra i poteri, quello esecutivo e quello giudiziario, o – come si dice correntemente - tra politica e magistratura. Non bisogna dimenticare che i funzionari, sia elettivi, sia di carriera, sono già sottoposti sia a controlli interni, sia a controlli esterni, come quelli dei giudici amministrativi, della Corte dei conti, dell’Autorità anticorruzione, e che, quindi, l’intervento della magistratura penale dovrebbe essere l’”extrema ratio”. Né bisogna dimenticare che l’aggressività penale è spesso dovuta ad una concezione sbagliata della giustizia come controllo della virtù – su cui si possono leggere le pagine critiche scritte da uno dei nostri maggiori studiosi, Alessandro Pizzorno -. Né bisogna dimenticare gli effetti prodotti da tale aggressività in termini di “burocrazia difensiva”, “fuga dalla firma”, preminenza della “non decisione”, con grave danno per la collettività, fuga di investitori stranieri, arretramento dell’iniziativa privata, scarso sviluppo economico.
Indipendentemente dal merito dell’inchiesta, è un fatto che in determinate indagini si crei una trappola con una sola via d’uscita, le dimissioni. Ritiene che in un caso come quello ligure ci fosse motivo di sostenere che senza le dimissioni sarebbe perdurato un pericolo, in questo caso potenzialmente infinito, visto che era legato agli appuntamenti elettorali?
Non sono in grado di rispondere. Quel che si può dire è che la magistratura che deve decidere le misure cautelari, quindi in una fase nella quale non c’è ancora giustizia, ma solo accusa, quindi prima del processo, deve ponderare attentamente numerosi elementi: la presunzione di innocenza, il buon andamento, il rispetto delle scelte elettive dirette, l’interesse nazionale a non ripetere continuamente elezioni, con le spese che comportano, che sono tutti elementi costituzionalmente prescritti. Questo perché le misure cautelari debbono essere proporzionate, quindi frutto di un bilanciamento. Ripeto, le misure cautelari sono scelte da organi di giustizia, ma non sono ancora giustizia.
C’è chi ha sostenuto, soprattutto all’inizio dell’inchiesta ligure, che riaffiora seppur in proporzioni diverse il malcostume pubblico che degenerò in Tangentopoli. A prescindere dall'accertamento giudiziario sulla vicenda in questione. Che ne pensa?
Mi pare che vi siano molte differenze: nel ’92-’94, si trattava di un sistema diffuso; non vi era l’attuale disciplina del finanziamento privato; questo si dirigeva alla politica e alle persone. Ora il finanziamento privato è previsto e regolato; da quel che si sa, era diretto solo alla politica, non all’arricchimento personale; non si tratta di un sistema diffuso.
Lei ha scritto un parere per la difesa di Toti. Come può essere trovato il bilanciamento di cui lei parla tra esigenze di giustizia e continuità dell’attività amministrativa?
Semplicemente adottando misure cautelari che consentano la continuità dell’azione amministrativa.
Il pericolo di reiterazione del reato concede al giudice, secondo il deputato Calderone, «un potere infinito, consentendo di trasformare la misura cautelare in pena anticipata». È un punto da riformare? Come?
Bisognerebbe evitare che diventasse un “potere infinito”, altrimenti il sistema giudiziario, invece di essere il palladio delle libertà, diventa il potere dal quale difendersi.
Salvini ha definito la magistratura «l’ultima vera casta di questo Paese». Ritiene che ci sia uno squilibrio tra poteri dello Stato?
Mi pare che non vi sia dubbio sullo squilibrio che si è andato producendo, a causa dei magistrati militanti, ma anche a causa della mancata attenzione del corpo politico sia alle proprie prerogative, sia alle proprie competenze: ad esempio, perché il Parlamento non esercita i poteri di controllo che spettano ad esso, grazie anche alla Corte dei conti, occhio del Parlamento, così sollevando la magistratura penale dal compito, che si è ampliato, di controllore dell’amministrazione? Prima che si arrivi a ripristinare la garanzia dei funzionari (un istituto nato e sviluppatosi in Francia, poi introdotto in Italia, poi abolito), sia per funzionari elettivi, sia per funzionari di carriera, è bene che si faccia una attenta analisi dei punti di frizione fisiologici e di quelli patologici.