Riprese ieri nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato le audizioni sul ddl sicurezza. Tra gli esperti sentiti a Palazzo Madama, il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano, con cui approfondiamo la questione.

Appena insediato, Nordio disse: «La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, una riduzione dei reati». Ma non sembra che si sia andati, almeno finora, in quella direzione.

Purtroppo no. Nella legislatura in corso sono stati introdotti diversi reati: dal primo, quello che incrimina i rave party, con il quale si è presentato il governo Meloni, all’ultimo, che punisce il danneggiamento all’interno delle strutture sanitarie. Gli interventi di contrazione del diritto penale, peraltro discutibili, hanno riguardato la sola sfera dei delitti contro la Pubblica amministrazione: abuso d’ufficio, abolito quasi integralmente, e traffico di influenze, che è stato dimezzato. La bilancia della legislatura pende senz’altro verso nuove incriminazioni. I risultati molto positivi in termini di velocizzazione della giustizia, peraltro, si devono, a mio giudizio, alla riforma Cartabia. Va dato atto al ministro Nordio di averne conservato l’impianto, con i suoi correttivi, compresi quelli relativi all’estensione della procedibilità a querela per molti reati, che ha avuto un rilevante effetto di deflazione processuale.

Il guardasigili aveva anche detto: «Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali». Eppure in Senato si discute il ddl sicurezza.

Beccaria 270 anni fa nel suo “Dei delitti e delle pene” scriveva che “il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne di nuovi”. Egli definiva questo punitivismo, o panpenalismo, diremmo oggi, “la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano”. Il ddl sicurezza è l’espressione ultima e più preoccupante di questa chimera: introduce in un sol colpo, se ho contato bene, 14 nuovi reati e 9 circostanze aggravanti di reati già esistenti. In più incide su effetti penali della condanna, anche non definitiva, sul regime dell’articolo 4 bis, che viene esteso, e sul rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte o madri di figli con meno di un anno, che da obbligatorio diventa facoltativo.

Il ddl colpisce le fasce più deboli – gli immigrati, i carcerati, i dissidenti – e favorisce le forze di polizia?

È così, come hanno osservato nei loro condivisibili comunicati l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale e l’Unione delle Camere Penali Italiane. Quanto agli immigrati, si arriva a vietare la vendita delle schede sim a chi non ha il permesso di soggiorno, si ampliano i casi di revoca della cittadinanza conseguente a condanna penale, e si prevedono pene severissime per le rivolte nei centri per gli stranieri. Non solo: si estende il Daspo urbano al divieto di accesso a stazioni e aeroporti, spesso rifugio degli immigrati, anche ai denunciati e ai condannati non definitivi nei cinque anni precedenti per delitti contro la persona e il patrimonio. Come se la presunzione di innocenza, invocata per la legge Severino, qui non valesse. Quanto ai detenuti, fa davvero scalpore il nuovo reato di rivolta. Che dire poi delle manifestazioni di dissenso? Si introduce tra l’altro un reato di opinione, l’istigazione a disobbedire le leggi in carcere, e col blocco stradale di chi si sdraia per protesta su strade e binari si arriva ad abolire un illecito amministrativo per introdurre un reato. L’esatto contrario della depenalizzazione!

Un articolo criticato da molti giuristi è appunto quello relativo alla punizione della resistenza passiva.

Equiparare la resistenza passiva alla violenza e alla minaccia, come fa il ddl, contrasta con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e offensività e, ancor prima, con la nostra tradizione giuridica. Non a caso si tratta, assieme al carcere per le donne incinte o neo mamme, della disposizione che più ha fatto sobbalzare sulla sedia i penalisti.

Quali sono le altre criticità della norma?

In un momento in cui le tensioni salgono, per il sovraffollamento e i continui suicidi, non penso proprio che la più responsabile risposta, anche sul piano della comunicazione, sia quella di punire per la prima volta con una norma ad hoc le rivolte e la mera disobbedienza. Al tempo stesso il ddl stanzia quasi un milione di euro l’anno per pagare le spese legali agli agenti di polizia, anche penitenziaria, chiamati a rispondere di fatti commessi nell’esercizio delle funzioni. Potrebbe apparire una provocazione, per chi vive in carcere e magari ha denunciato maltrattamenti o torture, e alimentare contrapposizioni e tensioni che invece vanno evitate, nell’interesse di tutti, a partire dagli agenti della polizia chiamati a un difficile e duro lavoro.

La combinazione tra questo ddl e quello sulle carceri potrebbe peggiorare la situazione negli istituti di pena?

Temo di sì. La vita in carcere si regge su delicati equilibri, che bisogna fare attenzione ad alterare, anche per non pregiudicare quanto di buono, con fatica, viene fatto nella direzione del recupero sociale. Le notizie filtrano dalle sbarre e se il messaggio è quello di legge e ordine, salvo alcuni pur pregevoli interventi del ddl in tema di lavoro penitenziario, dei quali va dato conto, il clima non migliora certo.

Si stanno susseguendo articoli sulle conseguenze dell’abrogazione dell’abuso di ufficio. Anche lei, come il presidente dell’Anm, ritiene che l’addio all’abuso sia una amnistia?

Amnistia è, con indulto, la parola che attendono invano i detenuti. Non si ha però notizia di una sola scarcerazione conseguente all’abolizione dell’abuso d’ufficio. Sono continue, invece, le notizie di archiviazioni o assoluzioni per abusi di potere odiosi, che sarebbe stato opportuno accertare e se nel caso punire: il pubblico ministero che danneggia un indagato a beneficio di un altro, il vigile che annulla le multe a un boss, il professore che ha truccato un concorso universitario, e altro ancora. Stride davvero poi con l’idea dello Stato liberale non punire l’abuso di potere del funzionario pubblico ai danni del cittadino. Sarebbe opportuno ripensare la scelta e reintrodurre, come minimo, l’abuso di danno, che è stato un macroscopico errore abolire. D’altra parte, non è la convenzione di Merida a obbligare lo Stato a valutare di punire l’abuso d’ufficio? Proprio ora che non abbiamo più il reato siamo vincolati a valutare di ( re) introdurlo. Sembra un paradosso o una provocazione ma, a ben vedere, non è così.