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Il correntismo è una vecchia piaga dei partiti, anche di quelli a basso tasso democratico, diciamo così. Ce ne sono, di correnti, persino nel movimento grillino, dove si può essere espulsi dalla mattina alla sera, o dalla sera alla mattina, anche con o per uno starnuto. Ce ne furono a iosa, di correnti, anche nella Democrazia Cristiana, la famosa “balena bianca” che il compianto Giampaolo Pansa scrutava nei congressi col binocolo. C’erano correnti, sotto la superficie di una disciplina non comune, anche nel Pci. Non parliamo poi di quelle socialiste, che spuntavano come funghi ad ogni pioggia. C’erano correnti, ai tempi lontani della prima Repubblica, anche in partiti dell’1 o zero e rotti per cento dei voti. Eppure, diciamoci la verità, almeno fra noi meno giovani che ne abbiamo viste e scritte di tutti i colori, nessuno di quei partiti è davvero morto, o portato in camera di rianimazione, per le correnti che se ne contendevano il controllo. Tutti sono scomparsi, o si sono trasformati in altri, o hanno tentato di farlo dandosi nuovi nomi e nuovi simboli, per errori di linea e scelta politica. Che ancora si è soliti negare, o non ammettere, preferendo prendersela con concorrenti e avversari, spesso più interni che esterni. Temo, per lui, che ciò sia accaduto o stia accadendo anche al buon Nicola Zingaretti, improvvisamente dimessosi da segretario del Pd dicendo addirittura di “vergognarsi” delle correnti dalle quali si è sentito almeno ultimamente assediato, ma molto ultimamente: diciamo dalla formazione del governo di Mario Draghi in poi, quando si è sentito chiedere anche un congresso anticipato. Al quale sembrava, ad un certo punto, ch’egli fosse pure disponibile, consigliato anche in questo dal compagno ed amico Goffredo Bettini, salvo ripensarci e ricordare le scadenze statutarie di primarie e simili nel 2023. Dio mio, come poteva Zingaretti pensare, pur con tutta la eccezionalità, anzi l’emergenza sanitaria, sociale ed economica della pandemia, che la sua segreteria potesse uscire indenne da una crisi di governo così lunga e così difficilmente gestita, a dir poco? Una crisi che doveva pur essere messa nel conto nel momento in cui anche lui, e non solo il “reprobo” Matteo Renzi, pose a Giuseppe Conte che sembrava ancora ben saldo a Palazzo Chigi, protetto dai sondaggi o dalla popolarità, il problema di un “cambio di passo”. Eppure bastò che quella crisi si scorgesse all’orizzonte perché il segretario del Pd frenasse di botto e lasciasse proseguire da solo Renzi. Che, dal canto suo, si era ormai spinto tanto avanti da non potersi o non volersi fermare. Le rottamazioni, si sa, sono per Renzi una tentazione irresistibile, forse ereditata dalla sua esperienza di boy scout, anche se quei ragazzi in divisa allestiscono tende prima di smontarle o abbatterle. Quel motto o grido, a verifica ormai iniziata ma complicatasi sempre di più per strada, di “Conte o elezioni”, o “Conte o morte”, lanciato da Goffredo Bettini e raccolto da Zingaretti, aveva l’inconveniente, fra gli altri, di una mancata verifica degli umori veri al Quirinale: non quelli attribuiti dai giornali. Sinceramente, non credo - al contrario di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, che è tornato ieri a scriverne - che Sergio Mattarella abbia cambiato parere all’ultimo momento dicendo e motivando il suo no allo scioglimento anticipato delle Camere e conseguenti elezioni in piena pandemia. Più semplicemente, e giustamente, il presidente della Repubblica ha trovato nelle emergenze prodotte dalla pandemia una ragione in più per non assecondare il tentativo avviato tra Palazzo Chigi e il Nazareno di andare avanti, una volta fallita l’operazione di aggancio di “volenterosi”, “responsabili” e quant’altro, con un governo Conte minoritario. Travaglio pensa ancora che la paura delle elezioni avrebbe portato nell’anticamera dell’allora presidente del Consiglio una folla di donatori di sangue, ma resta il fatto che la conta voluta così ostinatamente dallo stesso Conte al Senato, e permessagli da Mattarella, portò al risultato di una fiducia minoritaria. Che è un ossimoro, lo so, ma anche la realtà derivata dal combinato disposto dei numeri e dei regolamenti parlamentari. Del resto già un altro segretario del Pd, Pier Luigi Bersani nel 2013, entrò in rotta di collisione col Quirinale, dove “regnava” Giorgio Napolitano, per il tentativo di fare un governo dichiaratamente “di minoranza e combattimento” scommettendo sull’aiuto che lungo la strada, una volta partito il convoglio ministeriale, avrebbero dovuto concedergli i grillini. Che pure lo avevano sbeffeggiato in streeming incontrandolo a Montecitorio come presidente neppure incaricato, ma solo “pre-incaricato”, come ad un certo punto Napolitano fu costretto a ricordare a Bersani. Al quale pertanto tolse praticamente il mandato, o glielo congelò per il tempo necessario, e perduto, alla ricerca di un nuovo presidente della Repubblica. Perduto, perché si sa che Bersani fallì anche in quel tentativo col naufragio delle candidature prima del povero Franco Marini e poi di Romano Prodi.