I venti di guerra che soffiano in Medio Oriente, con l’attacco dell’Iran contro Israele che si annuncia imminente, hanno portato la tensione alle stelle anche tra il presidente americano Joe Biden e Benjamin Netanyahu. Da Washington Biden ha chiesto al primo ministro israeliano di smetterla di prenderlo in giro, dopo i continui stop and go relativi alla tregua sulla Striscia di Gaza. Un metodo che finora non ha portato a nulla.

La situazione in corso indurrebbe, come evidenzia il professor Gianluca Pastori (associato di Storia delle relazioni politiche tra Nord America ed Europa nell’Università Cattolica di Milano ed esperto di Relazioni transatlantiche dell’Ispi), l’amministrazione statunitense ad assumere una posizione più defilata rispetto alle vicende che interessano, prima di tutto, Israele e Iran.

Professor Pastori, quale ruolo potrebbero assumere gli Stati Uniti nella crisi mediorientale?

In questo momento gli Stati Uniti, in particolare l’amministrazione Biden, hanno tutto l’interesse a tenersi fuori da una crisi mediorientale, o meglio, a favorire una de- escalation della crisi. Le elezioni si avvicinano, il Partito Democratico parte da una posizione che è comunque di debolezza anche se la vicenda Biden si è in qualche modo risolta. Trovarsi in mezzo a una ennesima guerra in Medio Oriente sarebbe esiziale per l’amministrazione americana, quindi la de- escalation è la via prioritaria. D'altro canto bisogna notare che i rapporti tra la Casa Bianca e il governo Netanyahu sono difficili. Sembra, e questa è una cosa che si vede ormai da diversi mesi, che gli Stati Uniti non riescano a controllare e a influire concretamente sulle scelte di Israele. Per Biden è sicuramente un problema. Netanyahu in questo momento si trova in una posizione di forza e con il deteriorarsi della situazione Washington avrà meno spazio d’azione. Il primo ministro israeliano può accelerare o rallentare la dinamica della tensione.

Alcuni esponenti dei servizi segreti statunitensi si sono recati a Teheran per ribadire l’estraneità degli Stati Uniti all’attentato in cui è morto il leader di Hamas, Ismail Haniyeh. Al tempo stesso gli Stati Uniti hanno cercato di convincere l’Iran a non avviare una rappresaglia contro Israele dagli esiti imprevedibili. Gli emissari americani hanno detto che comunque gli Stati Uniti non abbandoneranno l’alleato israeliano. Il rischio della guerra totale è concreto?

L’appoggio degli Stati Uniti in favore d’Israele è scontato. È difficile immaginare una qualunque amministrazione americana che non sia pro- Israele, seppur con diverse sfumature. In caso di una guerra, è difficile immaginare che gli Stati Uniti non saranno con Israele. D’altra parte non mi stupisce nemmeno che ci sia un dialogo fra Washington e Teheran. Stati Uniti e Iran si sono parlati sempre anche nei momenti di tensione più grande e di confronto ideologico più spinto. Tendiamo a dimenticarcelo, ma nella prima metà degli anni 80 del secolo scorso, tra l’Iran di Khomeini e gli Stati Uniti di Reagan c'è stato un dialogo, nonostante momenti di estrema tensione. La politica iraniana è molto complessa, direi che è normalmente molto meno aggressiva di quanto non lascino sembrare le dichiarazioni dei vertici politici. C’è una linea di dialogo forte anche perché l’Iran sa benissimo che al di là delle parole non si può trovare in guerra contro Israele. Sarebbe a rischio quella che è la priorità del governo iraniano, cioè la stabilità del regime.

In questo contesto si rafforza la polarizzazione tra l’Occidente e un’altra parte del mondo in cui giocano un ruolo fondamentale Cina e Russia? Nel caso di un attacco dell’Iran ad Israele, cosa faranno Mosca e Pechino?

Molto probabilmente rimarranno alla finestra. In questo momento sia la Russia che la Cina hanno tutto il vantaggio a stare a guardare, a lasciare che le cose facciano il loro corso. La crisi mediorientale sta erodendo la posizione degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran e pure nei confronti di Israele. Mi sembra difficile ipotizzare una guerra su larga scala. Credo che potremo assistere a un attacco iraniano come quello dello scorso aprile, simbolico, con una reazione israeliana dello stesso tipo. Non dimentichiamo, inoltre, che all’interno del complesso sistema di potere iraniano per qualcuno l’eliminazione di Haniyeh può essere stata una cosa positiva.

Gli Stati Uniti hanno l’interesse a vestire i panni dello “sceriffo” in giro per il mondo o vorrebbero che si aprisse una nuova fase con sempre maggiore attenzione verso gli affari interni?

Il cittadino americano medio non ha nessun interesse a vedere gli Stati Uniti impegnati a fare lo sceriffo del mondo. Tutte le volte che un candidato alla presidenza degli Stati Uniti ha giocato la carta della riduzione dell’impegno internazionale, del tenersi fuori dalle guerre, ha sempre conseguito risultati positivi. È successo nel secolo scorso. È accaduto più di recente. Nel 2008 Obama vinse con lo slogan “bring them home”, riportiamo a casa i soldati americani dall’Iraq. Donald Trump vinse nel 2016 evidenziando che gli Stati Uniti non sono i poliziotti del mondo.

Una politica isolazionista si potrebbe aprire con Trump di nuovo alla Casa Bianca?

Chiunque vincerà le elezioni nel prossimo novembre dovrà fare una scelta di ripiegamento. Nel 2016- 2020 Trump è stato molto critico nei confronti del multilateralismo, delle Nazioni Unite, della Nato e dell'Unione Europea. Nel campo dei rapporti bilaterali il tycoon si è rivelato invece molto attivo. C’è però una grande differenza fra quelle che sono le dichiarazioni in campagna elettorale e le esigenze di sicurezza del Paese. Gli Stati Uniti sono un player globale. Se cominciano a cedere terreno, a ritirarsi dai loro impegni internazionali, rischiano di indebolirsi e di fare un favore alla Russia e alla Cina, vale a dire i suoi grandi rivali strategici.