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«Uno Stato nello Stato: l’antimafia degli anni Novanta è una forza, una componente formata da persone con responsabilità e funzioni istituzionali che ritengono di dover conservare un sistema di risposta alla mafia adatto al quadro di trent’anni orsono. E pur di conservare tale prospettiva, da cui non riescono a sciogliersi, qualcuno è pronto a contrapporsi persino ai giudici: ai magistrati di sorveglianza o ai giudici della Corte costituzionale».
Salvatore Lupo è uno storico, non un giurista. Ed è forse la formazione che prescinde dalla sola meccanica del diritto a dargli la forza di guardare negli occhi le cose. Incluse la mafia per come è oggi e l’antimafia per come si è conservata immutabile rispetto ad alcuni decenni fa. Il professore di Storia contemporanea dell’università di Palermo, autore di alcuni volumi decisivi sulla mafia, è impietoso nel definire il paradigma antimafioso: un po’ nostalgico, un po’ irriducibile nei propri schemi.
Della mafia s’è cristallizzata l’immagine stragista degli anni Novanta.
È quanto dico e scrivo da tempo. Parliamo della mafia stragista, o corleonese, anche se il secondo aggettivo risente di un’estensione forzata, perché i primi mafiosi stragisti non erano corleonesi. In ogni caso si tratta di un periodo che è cominciato e finito da un pezzo. È trascorso quello che si definisce un tempo storico, dall’epoca in cui lo stragismo mafioso ha concluso la propria vicenda.
Quindi siamo aggrappati a un totem?
Semplicemente, quello schema non esiste più. Lo suggeriscono i dati. La violenza delle cosche è stata innanzitutto inframafiosa, e sappiamo come oggi l’incidenza degli omicidi legati al crimine organizzato sia diminuita nettamente: ora parliamo dei femminicidi, cioè di delitti legati a dinamiche sociali e sottoculturali. Il fenomeno di trent’anni fa ha poi avuto, come sappiamo, una connotazione violenta proiettata all’esterno, terroristica, e in questo deriva dal modello del terrorismo politico. Ma è evidente come non solo sia scomparso lo stragismo mafioso, ma anche come il suo modello, il terrorismo politico, sia a propria volta archiviato da tantissimo tempo.
Ci siamo affezionati allo stato d’eccezione?
Alla mafia stragista, lo Stato ha risposto in modo efficace e rude. Non mi stupisco, non trovo incomprensibile quel tipo di reazione. Affermare lo Stato di diritto e difenderlo non significa ignorare le diversità della storia. D’altra parte l’opinione pubblica ha apprezzato quel tipo di risposta. Solo che non è più tempo per quella rudezza.
Non tutti sono d’accordo: c’è chi chiede di preservare gli stessi istituti di allora, a cominciare dall’ergastolo ostativo senza possibilità di un perdono slegato dalla collaborazione.
Ecco, mi dispiace che l’antimafia, che dovrebbe costituire un crogiuolo di legalità, un laboratorio contro fenomeni di malaffare, di illegalità complessivamente intesa, si riduca a un paradigma forcaiolo che contraddice i principi generali del diritto. Nella vicenda dell’ergastolo ostativo come in altre simili. Non esistano più i presupposti di quella reazione brutale operata trent’anni fa dallo Stato: pensare di perpetrarla non è utile né alla libertà né all’ordine. Tutti sanno che un po’ di indulgenza, persino nelle carceri, è funzionale e necessaria.
Alcune letture critiche dell’antimafia intravedono anche una tendenza a preservare funzioni, interessi, vere e proprie vicende professionali possibili solo in quella cornice.
Guardi che si potrebbe dire la stessa cosa per gli interpreti del modello passivo e indulgente affermatosi negli anni Settanta: non parliamo di cose nuove, tutti gli apparati funzionano secondo una logica di continuità. Anche Carnevale, per dire, era legato a un modello del passato, lo giudicava degno, agiva di conseguenza. Allo stesso modo alcuni magistrati antimafia si sentono allievi di Falcone. Mi limito a dire che non è più il tempo in cui Falcone ha dovuto adottare determinate strategie di risposta, perché non è più nemmeno il tempo di Riina. Non si può far finta che la storia sia ferma: ma alcune figure, alcuni protagonisti dell’antimafia, inclusi alcuni magistrati, si sono formati in quell’atmosfera e non riescono a uscire da quella logica. Però vorrei che un concetto emergesse senza equivoci.
Dica pure.
Anche in chi resta ancorato a un modello ormai estraneo al presente, non c’è né complotto né cattiva volontà, si tratta semplicemente della tipica cultura degli apparati.
Parlamentari e magistrati convinti che nella nuova legge sull’ergastolo ostativo servano paletti più severi sembrano quasi diffidare della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’istituto per com’è ora.
Sì, comprendo la sua analisi, ma questo dimostra semplicemente che non si può semplificare e dire che quell’impostazione sia sempre a favore dei magistrati: è per i magistrati solo quando condannano. Se assolvono, li si contrasta. Avrà visto che le più scomposte correnti del movimento antimafia si sono distinte in scene vergognose, in proteste pubbliche nelle aule di tribunale, quando degli imputati sono stati assolti.
Ma scusi, quindi l’antimafia è una specie di partito nostalgico?
Aspetti. È un partito la parte di questo fronte che sta nell’opinione pubblica. Nel caso della magistratura, si tratta di un pezzo di istituzione: è lo Stato, la burocrazia che si è formata a una certa cultura, in una data situazione storica. Ha difficoltà, e non ha interesse, ad abbandonare quella impostazione. Ha interesse piuttosto a giocarsi, nelle istituzioni, partite che possono condurre a polemizzare con chiunque. Anche con il Capo dello Stato, In altre parole, non possiamo spiegarci la posizione di tali componenti della magistratura come ispirate a un assoluto e intransigente rispetto per lo Stato: sono componenti che vogliono giocarsi le loro partite. Nel processo trattativa si è ritenuto di colpire il ministro della Giustizia o il ministro dell’Interno per scelte e atti compiuti nel pieno delle rispettive competenze costituzionali. Spesso si dice che non avrebbe dovuto essere il governo, o un ministro, ad assumere certe decisioni, ma qualcun altro. E ci risiamo: ci risiamo con la logica dell’eccezionalismo. Che però, alla luce della storia, non si giustifica più.
E invece abbiamo ancora una legislazione antimafia da stato d’eccezione.
È sbagliata l’idea per cui le leggi contro la mafia debbano essere eccezionali, prescindere dai principi generali del diritto. Devono invece essere leggi intese a colpire un fenomeno deteriore e pericoloso ma nel quadro dei princìpi generali del diritto.
E vale anche per l’ergastolo ostativo.
Se deve esserci, secondo Costituzione, la possibilità che l’ergastolo sia lenito, che contempli un perdono, così deve essere. Non si può dire che in certi casi il perdono è escluso.
Si diffida della Consulta, ma più di un partito, più di un magistrato, vuole sottrarre le decisioni sulla liberazione degli ergastolani ostativi ai giudici di sorveglianza e attribuirle al solo Tribunale di Roma. Come se non fosse materia adatta a loro, a quei singoli magistrati territoriali.
Però un’idea simile implica l’idea di una magistratura speciale, che è un’idea pericolosa, e che il pensiero liberale e democratico ha sempre contrastato. Ci sono gli incidenti della storia e tra questi anche eventuali decisioni giudiziarie cedevoli, condizionabili, ma vanno risolte con gli strumenti già a disposizione, con le inchieste. D’altronde, anche il magistrato penale che non assolve mai opera in modo non condivisibile. Ciascuno è esposto a condizionamenti, ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità e per ciascuno è possibile intervenire in caso di errore. Ma non è con lo stato d’eccezione che ci si mette in salvo dagli incidenti della storia.