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Nella loro ansia di cambiamento, insofferenti a tutti gli ostacoli che incontrano, grillini e leghisti hanno adottato nella loro azione di governo due parole magiche della sinistra: magiche ma purtroppo sfortunate, come vedremo.
'Più ci attaccano più ci compattano', ha detto orgogliosamente il vice presidente pentastellato del Consiglio Luigi Di Maio scommettendo sull’unità del suo movimento e della coalizione di fronte ai ' complotti' e quant’altro in corso contro il governo in carica. Ma l’unità, di cui la sinistra è rimasta orfana anche nelle edicole, non essendole bastato lo scempio fattone nella sua lunga storia a livello partitico, parlamentare e sindacale, è un po’ problematica a vedersi sotto le cinque stelle.
Basta osservare le distanze silenziose che ha preso da ciò che sta accadendo Beppe Grillo, quasi sorpreso pure lui dalle prove che danno i suoi nelle stanze dei bottoni. Dove peraltro già Pietro Nenni scoprì nel 1963, approdato a Palazzo Chigi con Aldo Moro, che mancavano del tutto.
Sempre più visibile invece è l’attivismo del presidente della Camera Roberto Fico, reduce da una missione a Bruxelles non proprio in sintonia con l’assalto all’arma bianca dei suoi compagni di governo agli uomini e agli organismi dell’Unione Europea. Di cui Di Maio ha quasi celebrato il funerale politico, sicuro che non potranno uscirne vivi dalle elezioni continentali della prossima primavera.
Circa l’unità della coalizione governativa, sarei più cauto di fronte a certe sofferenze all’interno della Lega, di cui forse si è fatto interprete negli ultimi giorni l’anziano ed esperto ministro degli affari europei Paolo Savona. Il cui peso, forse anche agli occhi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che pure non lo volle qualche mese fa alla testa del super dicastero dell’Economia, è cresciuto man mano che si è ridotta, al di là delle sue stesse responsabilità, quella del volenteroso titolare Giovanni Tria. Che è stato impietosamente ripreso televisivamente mentre il presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera gli spegneva il microfono.
All’unisono con Matteo Salvini, reduce a sua volta da un incontro con la leader della destra francese Marine Le Pen risultato particolarmente indigesto al già ricordato Fico, il vice presidente grillino del Consiglio grida ' avanti' ad ogni richiamo non dico a tornare indietro, ma a fermarsi con la sua macchina curiosamente provvista, a quanto pare, di una sola marcia. Avanti, rafforzata con l’esclamativo, è stata la parola magica e storica dei socialisti italiani, mutuata dai compagni tedeschi e tradotta anch’essa in una gloriosa testata giornalistica, scomparsa dalle edicole prima ancora dell’Unità fondata da Antonio Gramsci.
Matteo Renzi, pur togliendole scaramanticamente l’esclamativo, cercò non più tardi dell’anno scorso di raccogliere e rilanciare la parola magica dei socialisti adottandola come titolo di un suo libro biografico e programmatico, scritto col proposito di riprendersi dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale e dalla rinuncia a Palazzo Chigi. Si sa com’è finita: con la sconfitta elettorale del 4 marzo scorso e con la rinuncia anche alla segreteria del Pd.
Di Renzi, per quanto incredibile possa sembrare per l’animosità dei loro rapporti, Di Maio ha finito in questi giorni per ripetere anche il coraggio o l’imprudenza, secondo i gusti, di un attacco frontale alla Banca d’Italia nella persona del suo governatore Ignazio Visco. Del quale l’allora segretario del Pd reclamò inutilmente la testa, peraltro alla scadenza ordinaria del primo mandato, rimproverandogli una scarsa vigilanza su banche poi fallite. Di Maio invece lo ha sfidato, con una variante dei vaffa di Grillo, a presentarsi alle elezioni per conquistarsi il diritto, che oggi quindi non avrebbe, di giudicare la manovra economica del governo o, solo, di esprimere dubbi sulla sostenibilità dei costi dell’ennesima riforma previdenziale in arrivo.