Il dottor John Woodcock e la nostra collega Federica Sciarelli hanno diritto alla presunzione di innocenza ( anche se loro non l’hanno mai concessa ai loro imputati). Perché la presunzione di innocenza è un pilastro dello Stato di diritto talmente robusto da non consentire eccezioni. Protegge tutti: anche chi non la riconosce.
La decisione della Procura di Roma di indagarli per fuga di notizie non è una condanna per loro. E accanirsi contro due professionisti ( più o meno bravi) che stanno vivendo un momento molto difficile della loro carriera, è solo una vigliaccata. Molto frequente nel nostro giornalismo, ma non per questo giustificabile. Però è giusto ragionare su questi avvisi di garanzia.
Per la semplice ragione che per la prima volta si apre uno squarcio su un luogo misterioso della vita pubblica italiana: il retrobottega nel quale pezzi di magistratura e pezzi di giornalismo giudiziario si incontrano in segreto, violando la legalità, stabilendo assoluzioni e condanne, condizionando la politica, l’economia e spesso rovinando molte vite private. L’uso della stampa e del suo potere per fare giustizia sommaria al di fuori dei tribunali ( e violando la Costituzione), e per fare in modo che la magistratura condizioni e devii il corso della politica, da molti anni ( almeno 25) è uno dei mali più grandi della vita pubblica italiana, anche se è quasi “proibito” discuterne. Ed è quasi “proibito” per la semplice ragione che il sistema- informazione, facendo parte di questa malattia, come è logico si rifiuta di denunciarla.
Ora la Procura di Roma ha finalmente messo il dito nella piaga. Ed ha avviato un processo che può provocare un terremoto. Prima ha scoperto che gran parte delle notizie sul cosiddetto scandalo Consip erano false, poi ha scoperto che erano state falsificate da apparati dello Stato, poi ha scoperto che queste notizie – in gran parte false - erano state illegalmente diffuse da qualche ufficio della Procura attraverso alcuni giornali ( soprattutto “Il Fatto Quotidiano”) che le avevano ricevute e pubblicate ( senza averle potute verificare) comportandosi un po’ come uffici stampa più che come organi di informazione.
La Procura ieri ha formulato due ipotesi molto inquietanti sui possibili autori di questa gravissima azione illegale: ha detto che potrebbe trattarsi di un sostituto procuratore molto famoso e molto attivo, e cioè Woodcock, e di una giornalista della Tv notissima, e cioè la Sciarelli. E ha ipotizzato che Woodcock passasse le informazioni alla Sciarelli e che lei poi le passasse a sua volta – se capiamo bene – al giornalista del “Fatto” Marco Lillo.
I nomi scritti nel libro degli indagati potrebbero essere sbagliati, ma la filiera è quella. E questa filiera, da dicembre in poi, ha provocato uno tsunami politico che ha messo in gran difficoltà il partito di governo e il suo leader, cioè Renzi. Il quale Renzi, più o meno esplicitamente, ha reagito parlando di complotto, e per questo è stato molto preso in giro.
In effetti, secondo me, non è giusto parlare di complotto. Per una sola ragione: questo meccanismo, che stavolta ha colpito al cuore il Pd, ha funzionato negli anni passati moltissime volte, sempre in modo assolutamente efficiente, e ha danneggiato, o addirittura annientato, singoli leader e interi partiti politici. Da quelli della prima repubblica a quelli di oggi. In particolare Berlusconi. Perciò non è un complotto: è un meccanismo oliato e illegale che sta corrodendo la nostra democrazia, azzerando persino la possibilità di formazione di una classe politica. E senza ceto politico la democrazia non esiste.
L’iniziativa coraggiosa della procura di Roma, forse, rompe questo meccanismo infernale. Perché per la prima volta succede che un pezzo importante della magistratura si muove per fermare un altro pezzo di magistratura. E apre la speranza che lo Stato di diritto, alla fine, sia ristabilito.
Resta sullo sfondo il ruolo oscuro svolto dai giornali. O almeno da un certo numero di giornali. Che sin qui, nascondendosi dietro un presunto dovere professionale, hanno svolto un compito molto importante di supporto all’azione di pezzi di magistratura in guerra con la politica. Un compito sicuramente subalterno ma essenziale: la magistratura se non avesse a disposizione un certo numero di giornalisti e di giornali compiacenti, non avrebbe i mezzi per dispiegare la propria offensiva.
Probabilmente per porre fine a questa brutta vicenda servirebbe che anche nel giornalismo si sollevasse qualche coscienza critica, così come è successo dentro la magistratura. Si sollevasse, anzi, una vera e propria rivolta contro quell’idea di giornalismo passacarte, al servizio del potere ( prevalentemente del potere giudiziario) che in questi anni ha prevalso ed è diventata quasi una filosofia. Tanto da innalzare sugli altari del “giornalismo eroico” un qualunque “funzionario di giornale” capace di andare fuori della porta di un Pm ( o di un suo incaricato) per ricevere qualche carta proibita.
Rivolta del giornalismo vuol dire cose molto precise. Per esempio accettare – anzi chiedere – una limitazione delle intercettazioni e della loro pubblicazione; e chiedere un rispetto dei segreti di ufficio. E imporre un’etica professionale che respinga la subalternità ai gruppi di potere e alle manovre di palazzo. Questo costringerebbe anche gli editori a rinunciare a un populismo giornalistico a buon mercato, che oggi dilaga e che ha fagocitato il giornalismo vero, e ad investire sulle inchieste, sulle analisi, sui reportage, sul racconto. Diciamo pure su tutte quelle attività che, più o meno fino al 1992, erano la carne e il sangue del giornalismo italiano.