PHOTO
Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale
La notizia di ieri riguardante il deputato ed ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana Gianfranco Miccichè, già ministro e senatore di FI, dato per acquirente di droga in relazione a un’indagine per spaccio, apre una serie di questioni. Un non indagato è finito sulle prime pagine di tutti i giornali perché il suo nome appariva nell’ordinanza di custodia cautelare. Tutto normale? Ne parliamo con Oliviero Mazza, avvocato e ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Milano- Bicocca.
Non è grave l’assenza, nella disciplina sulla presunzione d’innocenza, di interventi normativi sulla pubblicazione dell’ordinanza cautelare?
Temo proprio di sì. L’ordinanza cautelare è un compendio degli atti di indagine e la sua pubblicazione consente di aggirare ogni divieto riferito agli esiti delle investigazioni. Il problema è ben noto, ma finora è stato affrontato solo con un timido divieto di inserire nella motivazione di tale provvedimento riferimenti non essenziali alle intercettazioni.
È troppo agevole, per i cronisti, l’accesso alle ordinanze cautelari?
In realtà, il segreto investigativo non è stato pensato con riferimento alle decisioni del gip. Solo nel 2017 è stato esteso ai provvedimenti in materia di intercettazioni, ma tuttora restano escluse le decisioni cautelari che, non essendo coperte dal segreto, risultano pubblicabili anche nel corso delle indagini. È una precisa scelta legislativa quella di consentire la pubblicazione delle decisioni del gip, ma dovrebbe essere ripensata proprio per evitare il troppo facile aggiramento del divieto di pubblicazione degli atti di indagine. Come detto, l’ordinanza cautelare è il tramite per la legittima pubblicazione dei risultati delle indagini.
In Europa è ormai consolidato il bilanciamento del diritto alla privacy e col diritto all’informazione su personaggi pubblici. Nel caso in questione, è giusto accostare lo spacciatore a Miccichè, non indagato?
Premesso che le notizie sulla vita privata dei soggetti politici possono rivestire un interesse pubblico, il caso in questione è del tutto peculiare, in quanto il politico non era oggetto di indagini e l’eventuale uso personale di stupefacenti non costituirebbe comunque reato. Mi sembra quindi difficile giustificare un interesse pubblico alla notizia, a meno di non ritenere che questo dato sia strettamente correlato all’azione politica di Miccichè. Ma non mi sembra che sia questo l’intento perseguito dai giornalisti. La sostanziale gratuità della notizia depone per la sproporzione dell’ingerenza nel diritto alla riservatezza del terzo estraneo all’indagine.
In Italia, forse più che in altri Paesi, sarebbe difficile far passare una norma che impedisca la pubblicazione dell’ordinanza cautelare? Si urterebbe troppo la “sensibilità” della pubblica opinione?
Si potrebbe trovare un ragionevole punto di equilibrio nella pubblicazione della sola notizia del provvedimento restrittivo, seguita dalla informazione relativa alla motivazione del riesame o dell’ordinanza genetica quando non sia impugnata. Ciò garantirebbe quantomeno un’informazione che tenga conto delle osservazioni difensive. Considerato, però, che i divieti hanno sempre dimostrato la loro inefficacia, sarebbe più realistico cercare di incidere a monte, imponendo una motivazione cautelare estremamente asciutta, selettiva e limitata ai fatti strettamente rilevanti per le incolpazioni.
Ma per tutelare i terzi non indagati si potrebbe pensare anche a prevedere degli omissis?
La tutela rispetto ai fatti privi di rilevanza penale deve riguardare tanto i terzi quanto gli indagati. La pubblicazione delle notizie si giustifica solo con riferimento ai reati, mentre è puramente lesiva della riservatezza quando riporta circostanze che non hanno nulla a che vedere con gli addebiti penali. È una regola generale che assorbe in sé ogni altra possibile soluzione. Posto questo principio in modo chiaro, sarei estremamente rigoroso nelle sanzioni per chi viola la regola. E non parlo di sanzioni penali che incontrerebbero facili obiezioni fondate sulla libertà d’espressione, ma di natura disciplinare e interdittiva, tanto per il giornalista quanto per la testata. Poi è chiaro che bisognerebbe regolamentare anche l’accesso agli atti ostensibili mediante un apposito fascicolo a disposizione di tutta la stampa, così da spezzare il circolo vizioso che lega alcuni giornalisti agli inquirenti.
Se fosse stato già legge, il ddl Nordio avrebbe impedito di far conoscere a tutti che Miccichè avrebbe comprato droga, posto che nell’ordinanza vengono inserite sia intercettazioni che pedinamenti?
Riguardo agli ulteriori limiti alla pubblicazione delle intercettazioni, il ddl va nella direzione giusta, ma sconta il difetto di precetti privi di sanzioni effettive. Nel caso specifico, il divieto di citare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti prevede pur sempre un’eccezione quando ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione dei fatti oggetto di accertamento. Dunque, indicare l’acquirente dello stupefacente potrebbe essere inteso come una specificazione del fatto reato. Il paradosso è che più le regole diventano di dettaglio e più è facile aggirarle. Occorre, invece, un salto culturale: non basta continuare a denunciare le degenerazioni e intervenire settorialmente, bisogna definire poche regole chiare e puntare sul senso di responsabilità di tutti, rafforzato da sanzioni effettive in presenza di violazioni. E non parlo solo dei giornalisti: il problema è soprattutto a monte, in chi scrive le motivazioni o distribuisce “sotto banco” gli atti processuali, alimentando le distorsioni mediatiche.
Cosa pensa del ddl Nordio in generale?
Si tratta di un pacchetto di riforme molto articolato, che va dall’abrogazione del reato di abuso d’ufficio al contraddittorio cautelare anticipato, ma al di là delle singole previsioni quello che conta è la netta cesura con l’ideologia della riforma Cartabia. Siamo passati dall’efficientismo repressivo all’efficienza delle garanzie. Non condivido, ad esempio, le critiche di chi sostiene l’irragionevolezza dell’abolizione dell’appello del pm per i soli reati a citazione diretta. Il problema sono i moduli processuali differenziati, che contrastano con la presunzione d’innocenza: ma rispetto al passato, oggi si differenzia nell’ottica comunque di un aumento delle garanzie. Chi contesta questa scelta dovrebbe, a maggior ragione, criticare l’idea stessa del doppio o del triplo binario che finora ha sempre visto procedure differenziate in ragione del tasso ridotto di garanzie per i reati più gravi. Incrementare le garanzie, sia pure solo per certi reati, è comunque una scelta che segna un’inversione di tendenza e non è in sé criticabile. In prospettiva, il processo penale dovrà essere ripensato ab imis: oggi è diventato uno strumento efficiente di difesa sociale o della vittima, mentre dovrebbe tornare a essere il giardino inviolato della cognizione. Così come il tema della libertà personale dovrebbe fondarsi sulla regola aurea che escluda del tutto la custodia cautelare, ponendo come misura massima gli arresti domiciliari, lasciando la possibilità della carcerazione solo in caso di dimostrato pericolo di commissione di crimini violenti da parte dell’imputato.