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A voler fare i conti si deve partire dall'inizio del '93. A quell'epoca risale la prima iscrizione di Calogero Mannino nel registro degli indagati. «Una sofferenza: la mia, certo. Ma si dovrebbe pensare a chi ha sofferto con me e accanto a me: mia madre, mia moglie, mio figlio». Sull'assoluzione dell'ex ministro al procedimento stralciato dallo "Stato mafia" si conoscono, da lunedì scorso, le motivazioni. Il gup di Palermo Marina Petruzzella fa a pezzi non solo le ipotesi d'accusa contro Mannino ma gran parte dell'impianto dello stesso filone principale. Ventitré anni di indagini e teoremi che sembrano tutti destinati a evaporare nel nulla. «Un danno per l'Italia: la conseguenza più spaventosa di questi ripetuti errori giudiziari», dice Mannino, «è nella cattiva immagine che si è consolidata del nostro Paese. All'estero, negli ambienti più qualificati, sono messe sullo stesso piano, tra le cause della nostra debolezza, la criminalità e l'amministrazione della giustizia».Questi errori come si spiegano?Un pezzo di magistratura inquirente, in una continuità che va da Caselli al recente passato, si è attestato su una traccia tematica, diciamo così, puramente fantastica. E si è privata così della possibilità di leggere i fatti per quelli che erano.Quali erano i fatti?Le stragi sono la reazione violenta di Cosa nostra alla propria sconfitta, cioè alla sentenza del maxiprocesso. Questa reazione ha avuto una proiezione politica: all'odio per i magistrati artefici di quel processo si è aggiunto l'odio per quei politici della Dc che si erano impegnati contro la mafia. E questo impegno è nei fatti.Parla dell'impegno suo personale?Parlo del via libera della Democrazia cristiana alle conclusioni dell'Antimafia da cui vennero il 416 bis e il sequestro dei patrimoni. Parlo delle modifiche ordinamentali che portarono poi alle misure del governo Andreotti predisposte dall'allora direttore degli Affari penali Giovanni Falcone. E più indietro nel tempo, parlo del congresso di Agrigento con cui la Dc nell'83 escluse Vito Ciancimino. Dietro quella scelta ci furono la mia iniziativa e responsabilità personali. Devo continuare?Se ritiene.Il maxiprocesso è stato sostenuto da una linea della Dc siciliana che era guidata da me. E tutti i punti ricordati messi insieme, compresa la nomina stessa di Falcone al ministero, hanno creato le condizioni affinché, con la sentenza del maxiprocesso, Cosa nostra uscisse sconfitta.Alla Procura di Palermo seguire questo tipo di ricostruzione storica è sembrato poco affascinante?Prima di risponderle faccio una premessa: il rebus di questa storia è nell'arrivo a Palermo di Caselli, il quale trova un gruppo di magistrati a lui politicamente affini e che avevano già imbastito il processo Andreotti, oltre a iscrivere il sottoscritto nel registro degli indagati. Nel febbraio del '95 io sono arrestato per le dichiarazioni di Gioacchino Pennino, noto personaggio del gruppo Ciancimino. Già da un paio d'anni Ciancimino era in linea di comunicazione con Caselli e il suo aggiunto Ingroia. I due magistrati si lasciano trascinare dalla 'disinformatia' di Ciancimino anziché indagare davvero sulle stragi.Perché si cede alla tentazione di credere nel complotto?Il cedimento viene anche da una debolezza intellettuale. Si subisce una suggestione soltanto quando non si possiede un intelletto forte, che sappia discernere gli elementi concreti e dalle semplici fantasie di natura complottarda. Ma qui la responsabilità non è solo di alcuni magistrati della Procura.E di chi altri?Del circolo mediatico e di segmenti politici in cui si segnalano due nomi: Luciano Violante e Giuseppe Lumia. Il primo porta Buscetta in Antimafia prima ancora che Andreotti riceva l'avviso di garanzia, il secondo esercita un ruolo decisivo nel costruire la fantasia della cosiddetta trattativa, basta guardare gli atti della commissione presieduta da Pisanu per verificarlo.Ma tutta quella che lei chiama fantasia sta per produrre il fallimento anche del processo Stato-mafia principale?Il presidente di quella Corte ha materia sufficiente per pervenire a un giudizio, diciamo, parallelo alla sentenza che mi riguarda.Tra il '92 di Mani pulite e il '95 del suo arresto si consolida l'idea che i politici mentono e i magistrati svelano la verità: la suggestione di cui parliamo è ispirata da quell'idea?Senza dubbio chi ha la frusta in mano dà ai fatti l'indirizzo che vuole. Ma le cose, compresa l'improvvisa scoperta della corruzione da parte della Procura di Milano, non avvengono mai per caso. C'entrano eccome la caduta del Muro di Berlino e la conseguente esigenza di una svolta nell'assetto anche economico dell'Italia. Si pensi alla dispersine del patrimonio di imprese pubbliche avvenuto in quel periodo.L'errore sullo Stato-mafia, dovuto secondo lei a debolezza intellettuale, è stato dunque un danno per l'Italia prima che per singole persone come lei.Lo è stato anche per la lotta alla mafia. Tutta questa vicenda ha impedito di condurla con quell'unità politica che invece era stata preservata nella lotta al terrorismo. Non a caso Falcone dichiarò più volte che si aspettava dalla politica un appoggio convergente e unitario. Con la sua intelligenza aveva intuito che la rottura tra le forze politiche avrebbe fatto passare la linea dell'intrigo. Oggi forse ci sono gli elementi per riflettere con serietà su quanto avvenuto. E va dato onore ai magistrati giudicanti che sono rimasti fermi sul concreto rispetto delle regole.Si è fatto una ragione di quello che ha passato, onorevole Mannino?Mi verrebbe da dire che, per paradosso, pago proprio il fatto di essermi battuto contro la mafia. Ma il senso è nell'assurdità tragica della vita. Dio mi ha dato la forza e probabilmente dovrà darmene ancora, visto che i pm hanno annunciato di volersi appellare quando la lettura del dispositivo era praticamente ancora in corso.Magari assoluzioni come la sua ci faranno rinsavire dal delirio giustizialista.Può darsi. Certo la deriva giustizialista è come le onde del sisma: sembra non volersi fermare.