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Legalità non è semplicemente esistenza di un insieme di leggi.
La storia è piena di esempi di leggi approvate da parlamenti sovrani che non avevano alcunché di democratico. Legalità è il fatto – e senza quel fatto il principio resta sopito – che vi sia un sacro rispetto di uno, e un solo modo per costruire le regole che sanciscono i perimetri di limitazione delle libertà fondamentali e questo modo è proprio quello che prevede che ci siano procedure, note prima che le norme vengano fatte, e che nel caso non raro in cui vi siano valori ed interessi confliggenti sia proprio la dinamica dialettica, che è propria della democrazia e dello stato di diritto democratico ( che si sostanzia anche nel contraddittorio dentro alla giurisdizione) a fare la “qualità” di una norma. Una qualità che vale – ossia ha un valore vincolante per tutti - a prescindere dal fatto che essa possa o meno essere favorevole a un gruppo o a un altro, a una classe o a un'altra, a una realtà o a una altra.
Insomma, legalità ha a che vedere con quello che pensiamo sia necessario per fabbricare delle buone regole e cosa pensiamo che si debba fare per rispettare tali regole senza che questo possa necessariamente richiedere l’intervento dell’autorità sanzionatoria.
Come si impara la legalità? In molti modi. Ma uno è proprio fondamentale. Il rapporto con l’altro, in un contesto che è già portatore di regole e in quel rapporto con l’altro la possibilità di mettersi in gioco si invera attraverso e grazie a quelle regole. Quale gioco? Quello della composizione delle differenze. Perché gli altri sono differenti, uguali ma differenti, e qui sta tutta la difficoltà dell’apprendere la legalità che ci vuole uguali ma anche capaci di avere rispetto per le differenze.
La legalità si impara di persona o in remoto? In entrambi i modi ma il primo è dominante rispetto al secondo nella prima età della vita.
Apprendere che l’interazione con gli altri è una interazione che sancisce, negozia e poi definisce limiti e al contempo avere in questo la possibilità di costruire la propria identità sociale è parte cruciale del percorso di formazione del cittadino.
Il 2020 è stato un anno in cui abbiamo imparato molte cose. Una di queste è quanto radicale possa essere la nostra capacità tecnica di smaterializzare, di rendere remote e virtuali le interazioni fra le persone.
Un apprendimento che sarà capace di portarci molti frutti, se lo sapremo valorizzare in un quadro di insieme che metta in equilibrio i pezzi.
E quali sono i pezzi? I pezzi sono quattro. I dati e quelli il digitale li ha in pancia in modo confinato. Le informazioni le quali sono presenti e fruibili attraverso il digitale e la interazione remota in modo molto meno costoso di quanto non accadesse in passato. La conoscenza, la quale naturalmente dipende dal fatto che tali dati e tali informazioni siano osservati con occhiali strutturati da concetti e teorie su come funziona il mondo o in modo meno ambizioso su come funziona il mondo rilevante per noi.
Ed infine il senso delle cose che dipende da come tutto ciò che abbiamo detto si inserisce in un contesto di esperienze dove la costruzione di un significato comune è parte integrante del fare le cose insieme.
Ed è proprio qui che ritorna la questione della legalità perché la legalità è un fatto istituzionale e un fatto sociale nella misura in cui il fare le cose insieme, nel sacro e convinto rispetto di conferire un significato condiviso al mettere le diversità delle persone in uno spazio dove ciascuna manifesta se stessa e lo fa con regole comuni ( alla cui manutenzione e alla cui eventuale revisione o fabbricazione partecipa) sia un principio interiorizzato.
Perché questa dinamica è così importante adesso? Perché di digitale siamo contornati ed è possibile che da questa nuova condizione di interazione possiamo trarre grandi cose. Ma meno attenti siamo sinora stati al fatto che l’” altra faccia della luna”, quella del senso e del significato condiviso del fare le cose insieme si deve costruire e lo si deve fare con strumenti e linguaggi che forse sono sotto i nostri occhi e che tendiamo a trascurare.
Prendete un gruppo di studenti e portateli in un museo. Meglio ancora attraversate una città per arrivarci. Li metterete a contatto con un tessuto storico e spaziale che google earth potrà rendere in digitale ma che mai darà lo stesso tipo di esperienza costruttiva di senso e di significato – dunque di legalità – di quella che si ha quando si è in presenza. Quel significato si apprenderà perché in quella piazza ci sono persone e le persone possono essere conosciute anche solo osservandole, perché si vedranno le modalità di comportarsi, i costumi e le abitudini e si avrà una esperienza della antropologia dei nostri spazi che non è altro che una esperienza dell’umanità fatta con categorie del ragionamento così che sia possibile imparare. Perché in gruppo? Perché il significato e in senso si costruiscono insieme. Non da soli.
Occorre parlarsi e mettersi a confronto. Occorre mettersi in gioco e non si gioca al gioco del vivere civico da soli.
Insomma, nell’era del digitale insegniamo la legalità negli spazi delle nostre città. Ai nostri ragazzi avremo dato le chiavi per l’isola del tesoro!