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Da uomini soli al comando a uomini soli e basta. Sembra essere questa la costante parabola dei leader politici che si sono succeduti negli ultimi decenni sulla scena italiana alla guida di partiti esclusivamente costruiti intorno alla loro persona. A conoscere l’implacabilità di questo percorso - dopo Berlusconi, Fini, Renzi e in qualche modo Luigi Di Maio - sembra essere adesso Matteo Salvini.
Certo, il Capitano è ancora molto forte nei sondaggi ma la spinta propulsiva della sua leadership mediatico- carismatica sembra come arrestata: cominciano ad emergere le contraddizioni e i limiti di una strategia politica occasionalista e totalmente incentrata sull’iniziativa e la visibilità personale.
La narrazione di una Lega monolitica d’altra parte si sta rivelando appunto soltanto una narrazione. Lo dimostrano le faglie di tensione che stanno affiorando in merito al tema dell’autonomia differenziata, la vera pietra d’inciampo per Salvini. Il leader del Carroccio infatti si trova di fronte all’inconciliabile contraddizione, finora rimossa, tra un’idea di Lega nazionale - partito sovranista sul modello lepenista - e di Lega Nord che non ha mai smesso di agitare la questione settentrionale.
La lettera che i governatori di Veneto ( Zaia) e Lombardia ( Fontana) hanno inviato a Conte – denunciando “la farsa” di un’autonomia mutilata – è in realtà un messaggio rivolto proprio a Salvini. E’ l’avvertimento con cui il nord leghista ricorda al segretario del Carroccio che o lui riesce a imporre l’autonomia differenziata oppure la rabbia del leghismo nordista, per ora canalizzata contro Cinquestelle e Palazzo Chigi, si rivolgerà direttamente contro Salvini. Contro colui cioè che ha sacrificato le ragioni del nord per guadagnare consenso sotto il Po. Il segretario del Carroccio è consapevole del rischio che corre ma continua a rimandare la questione.
Perché far saltare il tavolo sull’autonomia significa non solo perdere consenso al Sud ma sconfessare di fatto la sua idea di Lega: un movimento nazionalista immaginato proprio come superamento di un partito a baricentro settentrionale. Quel baricentro dove abita il potere federale leghista composto non solo dai potenti governatori di Veneto, Lombardia e Friuli ma dai quadri diffusi dell’amministrazione locale. Un personale politico con cui Salvini dovrebbe fare i conti se dovesse tornare a una Lega a trazione nordista.
Sotto il manto di un unanimismo di facciata è questa dinamica di scontro che sta crescendo nella Lega e in questo contesto vanno lette le mosse del numero due del Carroccio Giancarlo Giorgetti.
Dopo aver rinunciato alla propria candidatura nella commissione europea Giorgetti continua a far trapelare nel suo inner circle l’intenzione di lasciare anche l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Ora, non va dimenticato che Giorgetti – tornato a concentrarsi nell’ultimo mese su un lavoro di retrovia logistica proiettato oltre il governo gialloverde- è il punto di riferimento dei quadri leghisti e delle imprese del Nord; è l’uomo che fino ad oggi è stato il garante di quei mondi che hanno sempre vissuto con disagio la proiezione della Lega sul piano nazionale e la leadership assoluta di Salvini.
Ma Giorgetti è anche colui che all’inizio della cavalcata leghista sulle praterie del grande consenso, fino all’exploit delle europee, consigliava a Salvini di tenersi sulla scrivania la foto di Renzi, un memento per ricordare al segretario quanto sia fluttuante il consenso.
E in effetti è lunga la galleria di ex leader indiscussi, di immarcescibili “uomini forti” che la storia di questi anni s’è incaricata, a velocità progressiva, di ridurre a comparse in dissolvenza.
Silvio Berlusconi – tra i più longevi di questi “uomini della provvidenza” - oggi vede dilaniarsi nell’anarchia feudale il partito monarchico che aveva fondato; Gianfranco Fini, che aveva fatto di An una specie di caserma, è stato capace per il suo solipsismo di dilapidare insieme un’occasione storica e un capitale politico in pochi anni; Matteo Renzi che aveva ridotto il Pd a sfondo per le sue performance è stato liquidato come persona unfit to lead e responsabile del disastro elettorale del Pd alle ultime politiche.
La realtà è che l’idea stessa dell’uomo solo al comando è un mito infantile, a cui finiscono purtroppo col credere gli stessi protagonisti, vittime delle lusinghe di quei cerchi magici ( cortigiani, lacché e faccendieri) che fatalmente vanno a sostituire quei momenti decisionali che nei partiti democratici sono deputati alle assemblee e ai congressi.
Si dice che queste leadership carismatico- mediatiche sono giustificate dalla velocità della politica al tempo dei social. La verità è che senza partiti strutturati che sappiano bilanciarle, senza classi dirigenti capaci di garantire equilibrio, intermediazione sociale e visione della complessità queste leadership sono destinate a bruciare come fuochi di paglia. L’unica velocità che conoscono è quella della loro cecità e della loro fine.
Salvini rischia oggi di esserne una nuova dimostrazione.