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La recessione in Germania? È un pericolo, ma può anche essere una risorsa. Perché se è vero che le esportazioni italiane subiranno un colpo, dall’altra parte aumenterà l’allineamento del ciclo economico dei Paesi dell’Eurozona. E ciò, spiega Riccardo Puglisi, economista e professore all’università di Pavia, allontana il nemico numero uno di ogni unione monetaria: lo shock asimmetrico, ovvero andamenti negativi che colpiscono soltanto alcuni particolari settori produttivi o Paesi dell’Unione.
Professore, come va interpretata la recessione in Germania?
Intanto bisogna ricordare che le recessioni fanno parte della vita economica e non si può pensare a fasi di ciclo espansivo eterne. Sicuramente una causa è data dal rallentamento del ciclo economico in Cina, che gioca un ruolo dal punto di vista delle esportazioni e della fiducia globale sull’andamento dell’economia. Poi c’è la guerra commerciale tra Usa e Cina, che coinvolge anche l’Europa. Per un Paese con una componente rilevante di esportazioni come la Germania ciò ha un certo effetto sul pil.
Se rallenta la Germania cosa succede all’economia europea?
Siamo in una situazione in cui si allineano maggiormente i cicli economici europei e ciò fa bene, paradossalmente, alla politica monetaria.
Quindi l’economia italiana non corre rischi?
Ovviamente siamo colpiti dall’andamento del ciclo economico globale ( siamo tutti sulla stessa barca); inoltre, se la Germania va male le nostre esportazioni in quel Paese andranno peggio. Però, dal punto di vista dell’andamento dell’Eurozona, se la Germania rallenta aumenterà l’allineamento del ciclo economico di diversi Paesi dell’Eurozona stessa.
E quali sono le conseguenze?
La politica monetaria avrà più facilità a gestire una situazione simmetrica dentro l’unione monetaria. Questo perché sarà possibile usare la stessa impostazione e gli stessi strumenti e si andrà nella stessa direzione, senza rischiare di avvantaggiare un Paese a scapito dell’altro. Ovvero ci si allontana da quello che è il nemico di un’unione monetaria, lo shock asimmetrico.
In tal senso come bisogna interpretare quanto detto dal presidente della bce, Mario Draghi, che ha invitato la Germania a spendere e l’Italia ad essere più prudente?
Dice una cosa totalmente coerente con i dettami dell’economia monetaria internazionale: se c’è un’area che va meglio o ha spazio per spendere di più, dal punto di vista del bilancio pubblico, è buona cosa che lo faccia, perché in questo modo dà una mano all’espansione della domanda aggregata, per se stessa e anche per gli altri Paesi. Ciò vuol dire che in Germania salgono i prezzi, perché il problema è la competitività dei beni prodotti in ogni Paese. Con una politica prudenziale in un Paese come l’Italia, invece, la dinamica dei prezzi dovrebbe essere più bassa, e ciò rende più competitive le merci italiane. Questo è un meccanismo di aggiustamento cosiddetto multilaterale.
E ciò può avvenire?
C’è spazio, da un punto di vista fiscale, perché c’è un basso debito pubblico in Germania, Paese al quale viene rimproverato il fatto di non avere attuato una politica fiscale espansiva che aiuta a far alzare i prezzi, che è un meccanismo di aggiustamento per chi vive dentro un’unione monetaria.
Quanto può durare questa situazione?
Difficile fare previsioni, ma credo possa durare fino alla metà del 2020. Se gli stimoli hanno successo e se la guerra commerciale tra Usa e Cina si esaurisce, già nella seconda metà del 2020 potrebbero vedersi segni positivi. Se si implementa un’operazione ampia di investimenti in infrastrutture, riqualificazione energetica, infrastrutture digitali a livello europeo, penso che ciò possa avere un effetto non irrilevante sul pil comunitario per i prossimi anni.
Cosa dovrebbe fare l’Italia?
Ci sono due temi: da un lato ci sono le riforme strutturali, che rendono più produttivo il lato dell’offerta dell’economia, quindi il mercato dei prodotti, con più concorrenza, un mercato del lavoro più flessibile, ma comunque con sussidi di disoccupazione che permettano alle persone di avere un reddito se perdono il lavoro. Ciò vuol dire che i fattori produttivi possono spostarsi più velocemente verso i settori che vanno meglio. Dall’altra parte c’è il lato della domanda, quindi la politica fiscale e monetaria, e l’idea è che forse, specialmente per le spese pubbliche più produttive, bisognerebbe consentire più spesa in deficit. Non bisogna guardare solo il bilancio di un anno, ma le prospettive a lungo termine. Servono regole più intelligenti, più lungimiranti, e lasciare spazio agli investimenti pubblici.
Sarà possibile evitare l’aumento dell’Iva nella prossima manovra finanziaria? Penso sia sensato evitarlo e il modo migliore per farlo sarebbe rendere più efficiente e tagliare la spesa pubblica corrente. La strada maestra è quella, bisogna vedere se governo e Parlamento hanno la volontà politica di farlo. Credo che in qualche modo lo faranno, anche perché i 5 Stelle sostennero che la spending review di Cottarelli fosse sensata, quindi è anche nelle loro corde. Poi, però, si sono fatti influenzare dalla Lega.
Il cuneo fiscale è la priorità?
Questa è la linea del Fmi e dell’Ocse e anche della Commissione europea. Io penso che i tagli dovrebbero essere molto più generalizzati, non credo a questa retorica delle tasse buone e delle tasse cattive. Si dovrebbe anche intervenire sulla tassazione immobiliare, che va a toccare un settore - quello immobiliare - che rappresenta il grande organo malato dell’economia italiana. Con il passaggio dall’Ici all’Imu, tale settore ha pagato 70 miliardi di euro in più di imposte. Se il mercato immobiliare va male, le quotazioni non risalgono, si hanno conseguenze negative sui consumi e si hanno effetti sul bilancio pubblico, perché le dismissioni di immobili diventano più difficili Quindi non sono d’accordo sulla necessità di ritoccare solo il cuneo fiscale: tasse buone che fanno bene alla crescita non ce ne sono.