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Il professore avvocato Vittorio Manes
Dell’esemplare comunicato stampa del procuratore di Parma Alfonso D’Avino sul caso dei neonati trovati uccisi a Traversetolo, parliamo con il professore, e avvocato, Vittorio Manes. ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, il cui libro Giustizia Mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo ( Il Mulino, 2022) è stato definito, dallo stesso D’Avino, illuminante a proposito dei devastanti effetti causati dal processo mediatico «parallelo a quello giudiziario».
Finalmente un pm che denuncia le conseguenze negative del processo mediatico. A fronte, oltretutto, di un pur grave e raccapricciante reato.
Mi pare davvero apprezzabile il comunicato del procuratore di Parma, dottor D’Avino, sia per la particolare autorevolezza della fonte che per le circostanze di contesto, vista la gravità della vicenda e la difficoltà di arginare le crescenti richieste di informazioni: dimostra una rara sensibilità per i valori in gioco, e per le ricadute devastanti che la sovraesposizione mediatica può avere per le indagini e, soprattutto, per i diritti fondamentali delle persone coinvolte.
Ha notato anche lei, da alcune espressioni del procuratore, che è consapevole di essere “spiazzante” rispetto alle aspettative ormai inevitabili dell’opinione pubblica?
Certo, è un comunicato sorprendente e spiazzante, come lei lo definisce, rispetto alle attese, perché dal loro canto giornali e media reclamano, comprensibilmente, il diritto di cronaca. Ma il dovere di informare e il diritto dei cittadini di essere informati non sono valori assoluti, al cospetto dei quali possano essere dimenticati e calpestati gli ulteriori valori, parimenti importanti, che stanno sull’altro piatto della bilancia: altrimenti gli uni diventano diritti tirannici, e gli altri si riducono a garanzie di carta, o a semplici paper rules.
Tra i valori contrapposti, come appunto evidenzia il comunicato, si staglia in primo piano la presunzione di innocenza, principio e valore che rischia di essere annichilito dalla spettacolarizzazione mediatica delle indagini, trasformando l’indagato in un presunto colpevole, o in un colpevole in attesa di giudizio.
Una rappresentazione che in casi di reati gravissimi come quello di cui si sta parlando finisce col trasformare l’indagato in un autentico mostro agli occhi dell’opinione pubblica, distruggendone irrimediabilmente l’immagine pubblica e privata: se è così, deve essere tanto più condivisa e apprezzata, dunque, la particolare cautela che ha ispirato l’iniziativa del procuratore di Parma, orientata a evitare di produrre effetti informativi che, per la posizione dei soggetti coinvolti, sarebbero sostanzialmente irreversibili.
È interessante anche il fatto che D’Avino citi il suo libro, professore: il procuratore sembra così riconoscere che la funzione di un magistrato non è “onnipotente”, e che è importante tener conto dei contributi offerti da altri giuristi.
Al di là della citazione personale, è sicuramente apprezzabile che un magistrato si confronti con le opinioni degli esperti e degli studiosi, della “dottrina”, perché solo dalla considerazione, dal rispetto e dal confronto critico con le posizioni altrui può svilupparsi una comune sensibilità per i valori sul tappeto. Del resto, dovrebbe essere chiaro che tutti gli attori che partecipano o osservano il processo penale contribuiscono paritariamente alla amministrazione della giustizia, a prescindere dalla appartenenza alla magistratura, al foro o all’accademia: avere cioè la consapevolezza che la giustizia, come scrisse Balzac, dipende essenzialmente dalle azioni di tutti i protagonisti di quella pièce giudiziaria che è il processo. Ciò significa che il dialogo tra i diversi attori, all’interno della “comunità degli interpreti”, è un metodo necessitato, imprescindibile, per individuare i problemi e per rintracciare possibili soluzioni.
L’iniziativa del procuratore D’Avino sembra confermare quanto fosse opportuno recepire la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza.
Il recepimento della direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza è stato un primo passo, significativo ma certo non risolutivo, e come tutti i provvedimenti normativi presenta criticità e margini di miglioramento. Ha però evidenziato l’urgenza del problema, dando inizio a una “profilassi” che deve essere ancora sviluppata compiutamente, anche e anzitutto sul piano culturale: e anche da questa angolatura mi pare apprezzabile il comunicato, perché si sforza di promuovere un diverso atteggiamento culturale, “sensibile” ai valori in gioco.
Il comunicato termina annunciando che «vi è stata l’apertura di un fascicolo per possibile violazione del segreto di indagine». Si tratta anche qui di un’iniziativa isolata, perché, pur venendo violato il segreto in altre Procure, non si indaga mai sulla fuga di notizie.
Vero. La repressione sanzionatoria, a mio avviso, non è mai una soluzione convincente, ma un divieto sistematicamente lasciato privo di sanzione mina la stessa credibilità del precetto, ingenerando la convinzione che sia sostanzialmente “ammesso” trasgredire il segreto istruttorio, con effetti fortemente negativi sulla efficacia delle stesse indagini.
Secondo lei cosa occorre fare per invertire la rotta di un processo mediatico parallelo in cui stampa e magistratura si dividono le responsabilità?
È un problema complesso, che ha una dimensione anzitutto culturale, e come tale non credo che vi sia una qualche misura terapeutica, o una qualche soluzione legislativa, che possa risolverlo: serve piuttosto una diversa sensibilità e una rinnovata consapevolezza, da parte di tutti gli attori, della estrema vulnerabilità e “deperibilità” di valori come la presunzione di innocenza o il rispetto della vita privata e familiare, e tutti dovrebbero contribuire a un’informazione rights- sensitive, sensibile, attenta e rispettosa dei diritti in gioco. Perché, ad esempio, non pensare a un percorso di formazione specialistica e di “professionalizzazione” per il giornalista che si occupa di cronaca giudiziaria? E a un sistema di incentivi, o di disincentivi, per i giornali o i media che dimostrano di offrire sempre una informazione giudiziaria rispettosa dei valori in gioco, evitando toni sensazionalistici, espressioni o aggettivazioni colpevoliste, forme di spettacolarizzazione tanto gratuite quanto pregiudizievoli per gli interessati?
Bisogna anche ammettere però, e vari casi di cronaca lo confermano, che, come scrive lei, “quando l'avvocato si presta a questo gioco ( al processo mediatico, ndr) lo fa a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve...”.
Questa è la tentazione in cui può cadere l’avvocato, quando cede alle lusinghe della ricerca di visibilità, senza avvedersi che il torrente mediatico rischia sempre di travolgere chi lo alimenta e pensa magari di governarlo, finendo invece per pregiudicare anche la posizione del proprio assistito. Sempre meglio attenersi a una comunicazione sobria, ed essenziale, e solo ove ciò sia davvero necessario per indirizzare una informazione corretta sull’evoluzione della vicenda o per cor- reggere eventuali notizie distorte e pregiudizievoli per l’assistito.