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Saranno più di trent’anni che i politologi e i costituzionalisti cercano di dare un nome alla crisi della democrazia parlamentare, disegnando arabeschi semantici su quella strana condizione di transito che l’Occidente democratico- liberale sta vivendo. E qui la creatività è notevole: si va dalla “ democrazia del pubblico” alla “democrazia continua”, alla “ democrazia digitale” eccetera, tenendo comunque il cappio stretto attorno alla zattera lessicale della democrazia, quasi che, a lasciarla scappare solo per un momento, si corra il rischio di non ritrovarla più.
Il punto è che il celebrato crollo del muro di Berlino trent’anni fa non ha solo liquidato una storia ma ha ribaltato i canoni di tutte le storie politiche, in combinato disposto con quello che è avvenuto a partire dai decenni successivi, con l’esplosione della comunicazione digitale. Che ha modificato- e ancora continua a farlo- il criterio elementare della democrazia moderna basata sulla forma partito e sulla scelta consapevole, incidendo persino sul nostro patrimonio neurologico oltre che sulle nostre attitudini relazionali( al proposito si veda il bel libro di Calise e Musella, Il Principe Digitale, appena uscito per i tipi di Laterza).
In attesa di dichiarare guerra agli Over the Top, che non sono il titolo di un film di Stallone, ma una sigla per indicare i colossi del web che tengono prigioniera la nostra vita col nostro giocondo consenso, cerchiamo di capire che succede dalle nostre parti e che cosa facciamo per mettere qualche puntello al traballante equilibrio della nostra politica e delle nostre istituzioni, che comunque patiscono il danno della stravolta globalità.
Oltre gli assetti politici che già contengono un elemento intrinseco di instabilità- differenza ideologica, di parole d’ordine nella trama della comunicazione, di riferimento alle aree sociali del consenso, di organizzazione politica- comunque superabile per le “superiori ragioni di governo “( secondo la nuova formula “ contrattualistica” introdotta dal Mov. 5 Stelle), ci sono quelli istituzionali che vanno considerati con attenzione. Il taglio dei parlamentari, per esempio, passato sotto silenzio dopo i peana celebrativi del giorno dopo, rischia, se non ci fossero novità sul fronte referendario, non solo di spezzare in modo inconsulto l’assetto costituzionale, con le implicazioni relative alla mutilazione della rappresentanza, alla sovrarappresentazione del vincente, vero deus ex machina della legislatura, alla facile modificabilità della Costituzione, consegnata nelle mani della maggioranza molto più che adesso, ma anche di solcare ancora di più il rapporto tra eletti ed elettori.
Un rapporto che già si è rarefatto a causa del meccanismo vigente delle liste bloccate, con le scelte calate dall’alto e che concorre a rendere più acuta la crisi di identità del nostro Parlamento. Qual è il mood giusto che deve legare il cittadino elettore al suo eletto? Si presume conoscenza, verificabilità dell’operato, dialogo possibilmente, vicinanza, non intesa attraverso il solipsismo diverso dei like sui social network, ma nel senso di un rapporto diretto, fiduciario. E, inoltre, revocabilità del mandato nel caso di tradimento dell’impegno assunto con gli elettori.
Questo meccanismo funziona, più o meno, per tre livelli su quattro in Italia: il Comune, la Regione, e perfino per l’elezione dei rappresentanti nazionali nel Parlamento Europeo, attraverso la possibilità di una scelta diretta effettuata con la preferenza. Non funziona per la Camera e il Senato. Ecco: tra le anomalie cui porre riparo ci sarebbe la rimozione dei principi fondanti di una legge elettorale straniante che, in combine con il taglio dei parlamentari, rischia addirittura di diventare autoritaria. Ma, scommettiamo che non si farà mai?