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Le tre svolte. Le vicende che hanno travolto il Consiglio Superiore della Magistratura rischiano di compromettere ulteriormente la residua fiducia che gli italiani hanno nelle proprie istituzioni. E, tuttavia, il problema è antico perché è da quasi trent’anni che in Italia si parla di crisi e di riforma della giustizia. Più o meno da quando è nata la cosiddetta Seconda Repubblica dalle ceneri dell’indagine giudiziaria che segnò una svolta nella storia del Paese.
Sulla giustizia l’Italia ha uno dei peggiori tra i suoi ( non pochi) problemi. Lo confermano i riscontri delle classifiche della Banca Mondiale che misurano quanto diversamente capaci sono i Paesi del mondo nel far rispettare i contratti tra imprese e tra cittadini: l’Italia, nella classifica pubblicata nel 2019, è al 111esimo posto, subito prima dell’Algeria e precedendo in Europa solo la Grecia; nel 2004, quando le analisi della Banca Mondiale cominciarono ad essere pubblicate in maniera sistematica eravamo nella stessa posizione. Con 1120 giorni che, in media, ci vogliono per arrivare a una sentenza, scontiamo tempi della giustizia che sono due volte più lenti nei paesi con i quali dovremmo competere ( in Germania e Spagna una sentenza arriva mediamente dopo 500 giorni, in Francia e nel Regno Unito ce ne vogliono 400) e che in dieci anni si sono accorciati del 10%.
Ciò che è avvilente è il tanto rumore per nulla. Sulla giustizia, così come sulle e grandi riforme di cui l’Italia avrebbe bisogno di tornare ad essere Paese normale, sono state spese montagne di capitale politico e parole, producendo solo topolini di mezze riforme mai davvero capaci di creare l’aspettativa – fondamentale per poter dedicarci a crescere e ad innovare – di tornare a vivere in uno Stato di diritto. Ed anche sulla giustizia è come se fossimo fermi – da decenni appunto – sulla linea del fronte di una guerra di trincea tra due eserciti, due ideologie che, in fondo, hanno un bisogno per giustificare la propria legittimità politica. Tutti fermi mentre nel frattempo ai ritardi dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei si aggiunge, ormai, il ritardo dell’intero Occidente liberale rispetto a tecnologie che possono cambiare profondamente il mestiere di giudici, avvocati, forze dell’ordine.
Per uscire dalla paralisi sono necessari almeno tre cambiamenti radicali nell’approccio al dibattito sulla giustizia. Non possiamo più continuare a parlare di giustizia come se fosse una lotta tra poteri ( politica e magistratura) alla quale i cittadini assistono come se fosse una saga televisiva senza fine.
Il bisogno assoluto di giustizia, invece, riguarda la quotidianità di tutti. A tutti, del resto, capita almeno una volta nella vita, di dover recarsi in un tribunale “civile” e di fare – in primissima persona – una delle esperienze che maggiormente dicono come la civiltà di questo Paese stia scomparendo.
In secondo luogo, ed è conseguenza della prima considerazione, dovremmo cominciare a considerare la giustizia, un servizio pubblico. Giustissimo difendere e rafforzare l’indipendenza della magistratura dalla politica, ma il punto vero è trovare gli strumenti – equilibrati – per far “dipendere” la giustizia dal risultato che riesce a garantire a chi ne paga il costo ( i contribuenti).
Non c’è possibile riforma se essa non utilizza la domanda, l’intelligenza diffusa di una società che se trascurata regredisce. Vanno sperimentati, prima, e istituzionalizzati, poi, meccanismi intelligenti per far arrivare al sistema segnalazioni di problemi; così come deve essere possibile aggregare tali segnalazioni e trasformarle in richieste di miglioramento. Non è più impensabile, del resto, che, persino, alcuni dei componenti degli organi di governo della magistratura siano scelti - tra chi ne possiede requisiti – o confermati attraverso consultazioni popolari. Da disegnare con cautela ma con la consapevolezza che le procedure attuali non funzionano più ( e del resto c’è chi – tra gli studiosi delusi di tante riforme a metà - propone il ricorso ai sorteggi).
In terzo luogo, se è di un servizio pubblico che parliamo, le riforme di cui abbiamo bisogno non possono essere fatte solo dagli addetti ai lavori ( solo dai costituzionalisti, dagli avvocati e dagli stessi magistrati). È così per due ragioni. La prima – banale – sta nei conflitti di interesse che, inevitabilmente, si porta dietro chi sa che dalla trasfor-mazione dipende la propria professione. La seconda – ancora più importante - ha a che fare con il problema cognitivo che, di fronte a modifiche radicali indotte dalle tecnologie, vive, paradossalmente, chi è esperto e ha sempre vissuto in un certo mondo che rischia l’obsolescenza tecnologica. Il cambiamento sarà organizzativo oltre che costituzionale. Sarà fatto di incentivi che regolarmente responsabilizzino gruppi a cercare miglioramenti continui; piuttosto che di punizioni minacciate – in casi assolutamente eccezionali – nei confronti di singoli individui ( e, anzi, dovremmo, forse, superare l’idea stessa del giudice che monocraticamente decide). Per governare la trasformazione sarà indispensabile più il contributo di chi è abituato a gestire organizzazioni che processano informazioni per arrivare a decisioni complesse, che giudici che – part time – si improvvisino a governare una macchina che dovrà essere profondamente ripensata.
Infine le tecnologie: possono fare moltissimo; ma l’intelligenza artificiale per essere applicata avrà bisogno di leggi molto più chiare ( e meno numerose) e di interfacce che consentano all’uomo di poter, infine, usare la propria capacità di giudizio.
Abbiamo bisogno di molto meno retorica e di meno ideologia interessata. E di molto più pragmatismo. Di molto più rispetto sostanziale per una società che senza nuovi patti sociali, non ha futuro. Sono questi gli ingredienti di cui avremmo bisogno per cominciare ad articolare un progetto su come adeguare la giustizia al ventunesimo secolo. Giustizia che, persino, Adamo Smith, l’inventore dell’idea che i mercati si regolano da soli, assegnava allo Stato come funzione capace da sola di legittimare l’esistenza dello Stato stesso per evitare che una società degenerasse nell’abuso reciproco.
* Visiting scholar a Oxford University, associato al Sant’Anna e direttore del think tank VISION
PRECISAZIONE
Nell’articolo pubblicato sull’edizione di sabato, dal titolo “Il Dubbio processato ad Avezzano”, un mero refuso ha capovolto il senso di una frase. Nel passaggio in cui si ricordava che “… di quell’indagine, Paolo Borsellino non fu titolare fino alla fine dei suoi giorni” è saltato l’avverbio “non”. In tal modo si è attribuita erroneamente al magistrato assassinato a via d’Amelio la titolarità dell’inchiesta “mafia e appalti”.
Dell’inesattezza ci scusiamo con i lettori e con i magistrati che ebbero effettivamente la competenza su quel fascicolo.