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Premetto che conosco il Dottor Nino Di Matteo come Magistrato ( per favore: Pubblico Ministero e non Giudice, come spesso erroneamente indicato: a ciascuno il suo…) serio e convinto di quel che fa e, certamente, anche di quel che dice.
Non ho, invece, la fortuna di conoscere personalmente il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, né il Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho.
E, ovviamente, non ho conoscenze specifiche né sulla vicenda legata alla ( mancata?) nomina a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ( DAP) del Dott. Di Matteo, “imputabile” al Ministro, né sulla estromissione dello stesso Di Matteo dal Pool stragi della Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, “imputabile” al Procuratore Cafiero de Raho, sembrerebbe in séguito ad una intervista rilasciata ( sempre da Di Matteo) alla trasmissione Atlantide condotta da Andrea Purgatori, su La7, il 18 maggio 2018. Inoltre, preciso che non ho mai pensato che i magistrati non debbano parlare, che non debbano esprimere liberamente le loro idee, che i cittadini non abbiano il diritto di sapere, che la informazione non debba fare fino in fondo la sua parte.
Ma ho sempre ritenuto che il ruolo delle Istituzioni debba essere comunque preservato e protetto, a prescindere dalle persone che contingentemente le rappresentano e delle vicende che le coinvolgono: vorrei potermi svegliare in un Paese serio, nel quale ogni istituzione, ogni luogo, abbia il suo ruolo e il suo prestigio; un Paese nel quale ci si alzi spontaneamente in piedi se in una sala entra il Presidente delle Repubblica o se si suona l’inno nazionale.
Ebbene, entrambe le vicende sopra richiamate – sulle quali, come premesso, non entro – mi hanno fortemente impressionato, non tanto e non solo nel merito, quanto per le modalità con le quali sono emerse e, soprattutto, per il ruolo delle Istituzioni che sono state coinvolte, che mi sembra non ne escano ( mediaticamente…) con una immagine all’altezza di un Paese come ( dovrebbe essere) il nostro. Cerco di spiegarmi meglio, sperando di non essere frainteso. E comunque grato che, finalmente, oltre che di Coronavirus, ci si sia potuti occupare di altro ( per paradosso, mi sembra che qualcuno abbia trovato l’oppio dei popoli: da quasi quattro mesi viviamo sospesi e con i paraocchi…).
Dunque, il Dottor Di Matteo avrà sicuramente valutato la rilevanza e la portata delle proprie dichiarazioni, certamente da approfondire – come lui stesso, più volte, ha onestamente riconosciuto – nelle sedi opportune, quelle istituzionali, appunto. E ha parlato, ovviamente, a titolo personale.
Ma ciò che mi ha colpito maggiormente è che sia il Ministro della Giustizia che il Procuratore Nazionale antimafia ed antiterrorismo abbiano sentito la necessità di rispondere in diretta alle sue affermazioni nella nota trasmissione di Massimo Giletti, in onda su La7.
Ora, io capisco che viviamo in tempi di notizie immediate, di fast food dell’informazione, di tweet, e di assoluta supremazia dello strumento televisivo. Ma mi preoccupa molto che vicende serie e complesse, e meritevoli di approfondimento specifico nelle sedi opportune, sconfinino nella polemica immediata, nel botta e risposta, in un “confronto” immediato in diretta televisiva, sia pur ( almeno questo…) per mezzo del telefono, come nel caso della vicenda Di Matteo- Bonafede, o in un confronto appena sfalsato nei tempi, come nelle divergenze tra la versione di Di Matteo e quella di Cafiero de Raho.
Tutto sembra consumarsi in fretta e nelle piazze, quelle fisiche e reali ( purtroppo, per lunghi mesi precluse) e quelle mediatiche, specie televisive. In tal modo, si raggiungono più persone, spesso si butta lì il sasso, senza che vi sia il tempo di fermare le acque, di ragionare, di riflettere, di approfondire.
Quello che conta è la notizia. Poi, come cantava Franco Califano, “tutto il resto, è noia”; e non sembra interessare più a nessuno. Il processo virtuale, con tanto di “giuria” televisiva presente negli studi o collegata in diretta – certo non estratta a sorte, ma presente per invito nominativo – è simile al processo reale ( se ancora possiamo definirlo tale...): ci ricordiamo tutti delle indagini, ma quasi mai di come si concludono le vicende, di come finiscono i processi. E, spesso, anche i processi non si svolgono nelle sedi opportune, ma altrove.
Del resto, siamo in un Paese dove si pensa ( stavo scrivendo “seriamente”, ma poi mi è sembrato troppo) al processo penale telematico; dove si afferma la “inutilità” del Parlamento, preferendo decisioni prese ( magari da pochi) con consultazioni on line; dove, appunto, si fanno confronti meritevoli di sedi istituzionali utilizzando, invece, ribalte mediatiche.
Ma, proprio perché siamo in un tempo nel quale viviamo per immagini, e di immagini, sarebbe preferibile, a mio avviso, che si tentasse di fornire una immagine ( repetita iuvant…) del Paese, e delle sue Istituzioni, più elevata. E che, non omettendo alcun argomento e nessuna questione, finalmente si approfondisse seriamente qualcosa; e magari, se non è chiedere troppo, nelle sedi opportune.
* ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo