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Il film di Gianni Amelio sul Craxi di Hammamet riaccende il dibattito sulla figura del leader socialista, a venti anni dalla sua morte. Un dibattito, c’è da sperare, scevro da luoghi comuni, depurato delle pastoie di odiosi, quanto inconcludenti, pregiudizi e anche dalla retorica bolsa e, a volte, ipocrita di quanti lo inneggiarono nei momenti in cui era all’apice del successo, per poi abbandonarlo, esule, sotto il sole della Tunisia.
Non sarà certo un film, per quanto ben curato e abilmente interpretato da uno straordinariamente somigliante Pierfrancesco Favino, a fornire un giudizio storico compiuto e definitivo sul politico che, più di ogni altro, nella cosiddetta Prima Repubblica, seppe interpretare gli umori degli italiani cercando di calibrarne bisogni, difetti e aspettative, per racchiuderli in una visione riformista e di futuro che, soltanto in rari momenti della nostra storia, ha avuto cittadinanza nella sfera della grande politica. Eppure, questo film ci dice che sta maturando il tempo della storicizzazione, della analisi approfondita e comparata delle sue azioni e dei suoi gesti, degli scritti e dei discorsi, intercalati da lunghe pause, concesse ad arte all’uditorio per catturarne l’attenzione, alla ricerca ossessiva di una compenetrazione quasi mistica tra oratore e ascoltatore.
Fui partecipe di un episodio che ai più apparse poco rilevante nel 1990 e che, invece, aiuta lo storico a comprendere la portata dell’indiscusso, ancorché temuto, capo socialista di quell’epoca. Accompagnai Pino Rauti, da poco segretario nazionale del Msi, e Giulio Maceratini, presidente dei senatori del gruppo missino, alla conferenza del Psi di Rimini. L’invito di Craxi era arrivato direttamente nelle mie mani di responsabile della segreteria politica del partito. Non era mai accaduto in precedenza. Fu per tutti una sorpresa. Rubricarlo, però, come un atto di cortesia istituzionale sminuirebbe di molto il valore di quell’invito.
Il Craxi che apriva le porte della conferenza socialista ai missini era l’uomo che tre anni prima, nel 1987, aveva rimosso la falce, il martello, il sole e il libro dal simbolo del partito; l’uomo che, da sinistra, più di ogni altro, si era sganciato dalla tradizione del marxismo e del leninismo. Era il Craxi che aveva abbandonato simbologie e dogmi fino allora imperanti su quel fronte per riscoprire le proprie radici storiche, rivalutando il pensiero filosofico di Proudhon e quello sociale di Georges Sorel, per incarnare lo spirito del sindacalismo rivoluzionario europeo. Era il Craxi della Grande Riforma, dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. All’Unità, che con la graffiante penna di Serra, ironizzava sul “tempio greco” allestito sul palco del XLIV congresso, opera dell’architetto Panseca, e definiva la cultura umanista del Psi una sorta di trapasso “dal basco di Nenni alle mutande di Trussardi”, Craxi rispondeva: “Non si può racchiudere il futuro né in un basco né nelle mutande di Trussardi, né, tantomeno, dentro ad un eskimo”, la divisa con cui la moda dell’epoca attribuiva identità estetica agli attivisti comunisti. Era, anche, in politica estera, il Craxi di Sigonella che aveva frenato la invadenza militare americana e quello dei missili Cruise piantati al di qua della cortina di ferro per raffreddare la esuberante foga di egemonia sovietica.
Un anno prima della conferenza di Rimini, cui partecipammo come osservatori, era crollato il Muro di Berlino. Anche a destra, c’erano stati dei cambiamenti. Nei congressi di Rimini e, prima ancora di Sorrento, erano emerse nuove tesi e si era fatta strada una lettura attenta delle dinamiche sociali ed economiche, dei processi di finanziarizzazione dell’economia, delle nuove povertà e dei nuovi bisogni emersi da una modernizzazione del paese che non accennava a dipanare disuguaglianze e conflitti, e cominciava ad erodere quel ceto medio che, a distanza di decenni, appare ora oltremodo impoverito. Proprio su “nuovi bisogni e nuove povertà”, Claudio Martelli, stretto collaboratore di Craxi, e più volte ministro, aveva tessuto la trama programmatica del disegno di cambiamento craxiano. Argomenti, suggestioni, tesi che nella destra sociale trovavano attenti ascoltatori. Al pari di ogni manifesta ostentazione in difesa della sovranità e degli interessi nazionali: il tenere la testa alzata e mai china, nel nome di una Italia non genuflessa e mai prona. Insomma, una certa sintonia tra la il socialismo nazionale craxiano e un certo mondo della destra nazional- popolare si avvertiva. Craxi l’aveva percepita.
Di lì a poco, però, tutto precipitò. Con Tangentopoli, il capo socialista finì nella polvere. Disarcionato, svillaneggiato, messo alla berlina, sbattuto in copertina come il male assoluto. Pagò per tutti. Amato e odiato, comunisti e democristiani lo subivano, ma non lo digerivano perché era un socialista troppo autonomo dai due grandi partiti. Fu un insulto il lancio di monetine ad accoglierlo mentre usciva dall’ hotel Raphael. Tra i contestatori c’erano anche alcuni giovani di destra. Peccato. Il Tempio di Rimini era ormai ridotto in macerie. Crollato sotto i colpi di Mani Pulite. Intorno al Tempio era cresciuta una enorme fiera, annotò Giampaolo Pansa. Di creativo, non era rimasto più nulla.