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“Cuore di mamma”: questo il modo di dire che dice tutto quando in campo ci sono i “ragazzini”, siano essi diventati criminali oppure vittime innocenti. L’espressione mi è venuta in mente in questi giorni, quando si sono visti i media martellare sulle baby gang a Napoli e insieme diffondere quel misto di reazioni spontanee e dichiarazioni mirate o posizioni strumentali che continuiamo “chiudere” nel termine sempre più vuoto di “opinione pubblica”. A questi rumors ho sentito partecipare amici che appartengono a quella che si suole chiamare “parte sana” della società, professionisti civilissimi, di ferme convinzioni democratiche e liberali, persone colte e non direttamente implicate in ruoli politici o amministrativi, ma neppure coinvolte in quel genere di responsabilità da opinion leader che sacrifica anche i migliori – poiché il meccanismo è oggettivo, automatico – alle leggi del mercato e alle lobby del potere. Dei pareri di questi amici, pur espressi con autentica passione, sono restato deluso e persino irritato. La repressione non ha mai fermato la violenza delle bande giovanili
Mi è parso che essi non riescano a distinguersi, sollevarsi, dal genere di indignazione che, nel passato, ha sempre caratterizzato i “ben pensanti”: cioè i portatori “sani” di una cultura istituzionale ( nazione e famiglia) immersa nei valori – seppure dialetticamente, sostanzialmente condivisi – scaturiti dal rapporto storico tra capitalismo e democrazia. La materia delle baby gang è delicatissima, traumatica, ma proprio per questo necessita una riflessione all’altezza dei tempi: ora che alla democrazia dello Stato si sta sostituendo un genere di sovranità mascherata da popolo. Badate bene: siamo costernati dalla barbarie di bande appartenenti a quella che è stata chiamata “età dell’innocenza”. Urta con la nostra coscienza di civilizzati anche se di civilizzati in progressiva regressione, quale ad esempio risulta il nostro investimento emotivo sulla sfe- ra genitoriale piuttosto che nazionale e civile. Civilizzati convinti della nostra civiltà senza pensare che essa è stata ed è tale – cioè civilizzazione – solo grazie al fatto che scarica violenza e morte prevalentemente lontano dai nostri occhi e soprattutto dalla nostra carne: nel tempo ( cosa abbiamo fatto) e nello spazio ( cosa stiamo facendo). Sino ad oggi, qualunque tesi che giustifica questo nostro rigoroso apparato di rimozioni in nome di una qualche necessità di sopravvivenza locale o episodica, manca di ammettere che l’eccezione coincide con la regola stessa dei processi di socializzazione. Questa è la ragione per cui da qualche tempo ho cominciato a credere che i portatori di forme di sdegno – pur diversamente articolate, come ora è questa indirizzata contro la criminalità infantile – dovrebbero fare “un passo indietro”. Piuttosto che gridare cosa – per arginare il male più male di prima – si debba fare di immediato sul piano poliziesco- istituzionale- giuridico- culturale o che sia, dovrebbero rendersi davvero conto di ciò che dicono. Riflettere nel senso di guardarsi allo specchio.
Si tratta – prima ammissione ineludibile – di risanare una ferita sempre esistita tra strati sociali in condizioni di disagio d’ogni tipo, materiale e immateriale, quindi incluse famiglie povere e famiglie ricche, dominate e dominanti, cresciute fuori di ogni controllo civile per la potenza dei propri vari ambienti criminosi, ambienti che non insegnano le mezze o false misure ma l’immediato. E allora proprio chi è così sensibile al disastro dovrebbe pensare a come formare – innanzi tutto dentro se stesso – una consapevolezza radicalmente diversa da quella alla quale noi occidentali siamo stati allevati e cresciuti. Date le oggettive condizioni di disperazione della vita in comune dei popoli, ogni nostra intenzione educativa ( siamo, ripeto, ceti colti intermedi tra ' plebaglia' e sistema nazionale/ globale) dovrebbe sapere immaginarsi che proporre l’emancipazione di esseri umani allo stato brado significa comunque – per quanto azione ritenuta ' necessaria' alla nostra stessa sopravvivenza civile – avviarli ad un regime di vita che sino ad oggi, nella sua lunga durata, ha prodotto l’orrore che ci ripugna e al tempo stesso ha mascherato sapientemente il proprio stesso orrore. Intorno alle baby gang s’è alzato un coro di veementi lamentazioni sulla inefficienza di procedure politiche in grado di sorvegliare e punire: catturare e incarcerare. È questo un buon esempio della contraddizione di pensiero in cui cadono i miei amici di ceto, rinunciando così alla loro prerogativa, che è appunto quella di pensare senza essere immediatamente vincolati a ruoli troppo strumentali. Si può chiedere impunemente che tali misure vengano prese da una nazione che da sempre ha lasciata irrisolta la condizione disumana in cui vivono la carceri?
Cinema e serie americane sono da molti anni alla portata di chiunque vi cerchi una evasione dalla propria realtà, dalla propria condizione identitaria, e insieme – oppure di contro – voglia conoscere il mondo “di fuori”. E dunque a quasi tutti, indipendentemente dal ceto socioculturale di appartenenza, dalla nicchia di vita quotidiana che è toccata loro, hanno avuto la costante prova che dovunque – metropoli o periferie o campagne americane, quartieri parigini o londinesi, bidonville brasiliane o africane – la violenza di bande giovanili che infieriscono sul proprio territorio non è mai cessata ad onta di qualsiasi sistema di contenimento o repressione. Ora tuttavia, laddove l’età del criminale si abbassa vertiginosamente, si capisce che aumenti di molto lo scandalo per l’inadempienza e impotenza della legge e dell’educazione. I criteri di valutazione della differenza tra colpa e innocenza arrivano a toccare una soglia inattesa, traumatica ( un poco come toccò a Mosè invitato da Dio a sacrificare Isacco).