PHOTO
L’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria rappresenta per gli avvocati penalisti una modalità di protesta estrema, proclamata quando è necessaria una forte e aspra critica nei confronti di scelte politiche non condivisibili, che destano grave allarme per il futuro della nazione. È un dissenso che mira al bene comune e mai alla difesa dei diritti della professione. Dall’iniziativa, inoltre, l’avvocatura non trae alcun vantaggio: il rinvio del processo non giova né al legale né all’imputato, in quanto sia i termini di prescrizione che quelli della misura cautelare vengono sospesi.
L’astensione del 9 luglio, con la manifestazione nazionale nel Palazzo di Giustizia di Napoli, giunge dopo un lungo periodo di forti critiche alla politica del governo in materia di esecuzione penale. La strada imboccata è buia, senza uscita e in contrasto con i principi costituzionali.
La detenzione in carcere come panacea di tutti i mali. Si dimentica che l’articolo 27 della Costituzione fa riferimento alle “pene” e non alla “pena”, poiché la reclusione è una delle possibili punizioni, ma non l’unica, e soprattutto deve sempre rappresentare, non solo in materia cautelare, la soluzione estrema.
Una scelta, dunque, ideologicamente sbagliata che in diritto non trova alcuna possibilità di riscontro e, nella pratica, è palesemente e drammaticamente pericolosa perché rappresenta il colpo di grazia a un sistema penitenziario già oltre il collasso.
La maggior parte degli istituti di pena presenta un sovraffollamento oltre il livello di guardia. La media nazionale, in costante aumento, sfiora il 130%. Al 30 giugno, secondo i dati del ministero della Giustizia, vi erano 60.522 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 50.496 unità. A tale ultima cifra va sottratta quella di 4.000 posti indisponibili perché relativi a spazi allo stato inagibili. Il sovraffollamento è dunque di pari a 14.026 persone recluse in più rispetto alla capienza.
A tale drammatico dato si aggiunge quello delle piante organiche insufficienti. Mancano medici, educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, agenti di polizia penitenziaria e personale amministrativo. Gli edifici sono fatiscenti, alcuni addirittura con le mura di cinta pericolanti. Detenuti costretti a vivere in spazi angusti e insalubri, dove il caldo estivo rende la sopravvivenza impossibile.
In carcere si muore. Nel 2018, 148 i decessi, 67 suicidi. Quest’anno al 2 luglio i morti sono 67 ed i suicidi 23. Circa un morto ogni due giorni. Nell’istituto di Napoli- Poggioreale, dal 28 giugno al 1° luglio, in tre giorni, vi sono stati due suicidi e un morto per malattia. Ma il filo nero della morte attraversa tutta l’Italia e i detenuti si ribellano. Come a Trento, Rieti, Sanremo, Spoleto, Campobasso, Agrigento, Trapani, Barcellona Pozzo di Gotto e anche a Poggioreale. Pur assuefatti a condizioni di vita disumane, i detenuti sono esasperati per il mancato soccorso di un malato grave, per l’insopportabile caldo, per la mancanza di acqua, per la continua offesa alla loro dignità. Rivolte che hanno visto padiglioni devastati e incendi. Azioni che vanno certamente non condivise ma che meritano un’analisi approfondita, perché sono il chiaro segnale che si è superato il limite della tollerabilità. Il conto da pagare, dopo le proteste, è molto alto: immediati trasferimenti in altri istituti e liberazione anticipata negata, che in termini pratici vuol dire parenti lontani e fare a meno di uno sconto di pena di 45 giorni ogni 6 mesi.
Vanno accesi, dunque, ancora una volta i riflettori su un sistema per il quale è necessario trovare immediate soluzioni, mettendo mano a una serie d’iniziative in grado di umanizzare la pena e di riportare l’esecuzione penale nella legalità.
La strada da percorrere è già tracciata ed è quella indicata dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, dal Consiglio d’Europa, dai trattati internazionali sottoscritti dal nostro Paese, dagli Stati generali dell’Esecuzione penale, dalla legge delega approvata in Parlamento, dalle commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, un percorso costituzionalmente orientato che ha visto, invece, il governo andare in direzione contraria, anche rispetto all’ideologia che spinse il legislatore del 1975 a scrivere l’ordinamento penitenziario.
Allo stato si è dinanzi a una “contro- riforma di fatto” dell’ordinamento penitenziario. I trattamenti inumani e degradanti che sono costretti a subire molti detenuti in Italia sono destinati a colpire anche le nostre coscienze di uomini “liberi”.
È tempo di decidere da che parte stare e manifestarlo. L’avvocatura, come sempre, è dalla parte della Costituzione, e l’astensione per l’emergenza carcere è l’ennesimo tassello di una battaglia di civiltà, non solo giuridica, che ha visto spesso silenti altri componenti del mondo giudiziario.
* Avvocato, responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane