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Il giudice diverrà l’arbitro ultimo dei tempi del processo? Sarà il magistrato penale a dover compiere la scelta – drastica e potenzialmente drammatica – tra dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale, destinata a porre fine alla vicenda processuale, e il prolungamento del processo al di là degli ordinari termini di legge? È quanto prevede l’ultima versione della riforma del processo penale, che al giudice attribuisce un inedito potere: prorogare, in ragione della complessità del procedimento (per numero delle parti o delle imputazioni o per la natura delle questioni giuridiche o di fatto da affrontare), la durata dei giudizi di appello e di Cassazione.
Proroga che potrà essere adottata una sola volta per la generalità dei procedimenti, mentre sarà reiterabile per i giudizi di impugnazione su reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale aggravata e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Per comprendere come si sia giunti a questa soluzione ( non paragonabile, per la sua portata e i suoi effetti, alle decisioni sulla proroga della custodia cautelare) occorre ribadire, ancora una volta, il peccato originale della riforma, o meglio della “mediazione” Cartabia, e rappresentare la cascata di conseguenze negative che ne è scaturita.
Il nervo della prescrizione
Il peccato originale sta nel non avere seguito la strada di coraggiosa deflazione del carico giudiziario tracciata dalla Commissione Lattanzi, rinunciando (in nome di un astratto rigorismo?) ad alcuni istituti innovativi, come l’archiviazione meritata, e limitando la portata di altri strumenti di riduzione del numero dei processi e di accelerazione della loro durata: dalla restrizione dell’area del patteggiamento alla retromarcia in materia di appelli del pm, delle parti civili e degli imputati. Con l’effetto di lasciare nuovamente scoperto e dolente il nervo della prescrizione, punto di scarico finale di tutte le irrisolte contraddizioni del processo, e di riattizzare uno scontro politico cui si poteva sperare di porre fine solo ristrutturando l’intero assetto del procedimento e del processo.
Compromessi politici o di necessità
Da qui in poi sono cominciati i compromessi, politici o di necessità. Il primo è consistito nell’affidarsi – per misurare i limiti temporali del processo – ad un sistema ibrido, frutto della meccanica addizione del regime della “prescrizione sostanziale” voluto dal governo Cinque Stelle- Lega con un inedito regime di “prescrizione processuale”, ovvero l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini dei giudizi di appello e di Cassazione. Sistema potenzialmente produttivo di risultati paradossali, già messi in luce da più commentatori, e, quel che più conta, risultato insostenibile in numerose Corti di appello, gravate da grandi quantità di processi.
Cosa dice la Costituzione
Ed ecco che, per rispondere alle critiche, ha preso corpo il secondo compromesso: la previsione di più ampi termini di legge per la celebrazione dei giudizi di appello e di Cassazione, affidata però alla “facoltà” del giudice di prorogare tali termini con una ordinanza motivata e ricorribile dinanzi alla Suprema Corte. L’ultima parola al giudice, dunque. Non solo, come è naturale, sui fatti e sulle responsabilità, sulla colpevolezza o sull’innocenza, ma anche sulla durata del processo.
Eppure, secondo la Costituzione, è “la legge” che deve assicurare la ragionevole durata del processo e, aggiungiamo, la ragionevole prevedibilità di tale durata. Ed è perciò il legislatore che deve fissare la cornice temporale ed i limiti invalicabili di ogni processo, valutando il “fattore tempo” nelle sue diverse valenze: tempo dell’oblio sociale nei confronti del reato; vicinanza temporale tra i fatti per cui si procede e il giudizio, per permettere all’innocente di fornire prove a discarico, irrintracciabili a eccessiva distanza dagli eventi; grado di accettabilità di una condizione di imputato troppo a lungo protratta.
I problemi spinosi
Il sentiero impervio, oggi imboccato, legittima molti e inquietanti interrogativi. Quanto saranno comprensibili e socialmente accettabili scelte “operative” sui tempi dei processi (inevitabilmente diverse a seconda dei casi) che incideranno profondamente sul destino ultimo degli imputati? Fino a che punto il “merito” di tali scelte sarà controllabile dal giudice di legittimità? A quali rischi esse esporranno magistrati che sono pronti ad assumere ogni responsabilità per un giudizio emesso in scienza e coscienza ma che, in questo caso, saranno chiamati a valutazioni di diversa natura, con effetti salvifici o pregiudizievoli?
Mentre la politica saluta con soddisfazione il primo passo della riforma del processo penale e ciascuna forza politica si affanna a rivendicare il suo “decisivo” contributo, è giusto che chi si occupa di giustizia ponga, tra gli altri, questi spinosi problemi. Non per guastare la festa, né per negare l’indispensabilità di un intervento riformatore, ma per avvertire che il congegno messo in campo rischia di risultare difettoso quando sarà sottoposto alla prova della realtà.
La durata dei processi
Se, per realismo, si dovrà prendere atto che non ci sono più margini per sanare il peccato originale della riforma né per abbandonare la soluzione ibrida messa in cantiere sulla durata dei processi, si può chiedere almeno di rimeditare questo aspetto della nuova normativa, fissando per legge – e senza interventi dei giudici – congrui termini di improcedibilità, calibrati sulla gravità e sull’allarme sociale dei diversi reati e sulla complessità dei relativi giudizi? Ciò sarebbe in sintonia con le indicazioni offerte dal giudice costituzionale che, anche nella recentissima pronuncia n. 140 del 2021, ha insistito sul ruolo irrinunciabile del legislatore nel fornire un quadro di certezze sulla durata dei processi.
Lo sappiamo: si potrà sostenere che il principio di legalità è comunque rispettato dalle norme oggi dettate in materia di proroghe, anche se esso appare vacillante di fronte all’ipotesi estrema di proroghe reiterate. Ma resta che l’equilibrio – o piuttosto l’esercizio di equilibrismo – immaginato come via di fuga da una impasse tutta politica allontana la realizzazione della promessa costituzionale di un processo di ragionevole durata e incide pesantemente su fondamentali garanzie dei cittadini. Recedere da una scelta improvvida sarebbe una prova di saggezza da parte di un Parlamento che volesse liberarsi dalle pressioni e dai condizionamenti impropriamente esercitati dalla politica politicante sulle questioni di giustizia.