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Vi è un modo alternativo di risoluzione delle controversie, diffuso in tutti gli ordinamenti giuridici occidentali: l’arbitrato, ovvero del fare giustizia affidandola ai privati. Si tratta di una “giurisdizione senza stato”, perchè si pone in alternativa alla giurisdizione pubblica dello stato, in modo conforme agli articoli 25 e 102 della Costituzione e quindi dell’agire in giudizio e della funzione giurisdizionale. L’arbitrato affonda le sue radici nel diritto di libertà delle parti di negoziare uno strumento alternativo per risolvere il contenzioso, e quindi nella valorizzazione dell’autonomia privata e dell’autonomia collettiva, che stanno a fondamento delle origini della clausola compromissoria. Ciò che conta è fare giustizia, secondo i dettami costituzionali – e quindi non solo in attuazione conforme degli artt. 25 e 102 ma anche degli artt. 24 e 101 – ma che rappresenta altresì il paradigma della erosione della sovranità statale in luogo di quella popolare. Sovranità del popolo da intendersi, quindi, anche come attribuzione in capo ai privati della funzione giustizia, ovvero del fare giustizia in forma alternativa rispetto alla giurisdizione statale. Così come previsto dalle leggi e dal codice di procedura civile all’art. 806 e ss. L’istituto dell’arbitrato risale addirittura al 1768, quando la Camera di commercio di New York istituì un tribunale arbitrale, riservato specialmente per la risoluzione delle controversie mercantili, sulla spinta dei coloni olandesi che scelsero l’arbitrato come alternativa al processo per la sua rapidità e il suo basso costo. Poi, una legge nello stato di New York, che rendeva le clausole compromissorie vincolanti ed eseguibili dalle corti, e la nascita, nel 1926, dell’American Arbitration Association, segnò la piena legittimazione del ricorso all’arbitrato ( amministrato) quale risoluzione alternativa delle controversie. Per saperne di più assai utile è la lettura del libro di J. Auerbach, Justice Without Law. In Italia, l’arbitrato ha avuto alterne fortune. Inizialmente la Corte di cassazione negò l’equivalenza a potere giurisdizionale al pari di quello statale. La sua legittimazione come giurisdizione fu affermata dalla Corte costituzionale ( sentenza n. 376 del 2001), che riconobbe al Collegio arbitrale il potere di sollevare la questione di legittimità costituzionale di una norma, che interessa il procedimento arbitrale e che si presume possa essere incostituzionale. Il collegio arbitrale come giudice a quo, e quindi investito del ruolo e funzione di autorità giurisdizionale, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Oggi buona parte degli arbitrati sono amministrati, cioè regolati da Camere arbitrali presso le Camere di commercio, l’Anac, la Consob e il Coni, con riferimento all’organizzazione degli stessi e non certo riferibili alla disciplina processuale, che naturalmente è prevista dal Codice di procedura civile. In particolare, potrebbe creare forme di perplessità costituzionale la scelta e la nomina degli arbitri negli arbitrati amministrati, dovuti alla loro diversificazione e quindi alla mancata omogeneità di regole comuni. Sebbene l’assenza della legittimazione politica dei collegi arbitrali è compensata, il più delle volte, dall’autorevolezza ed equidistanza riconosciuta dalle parti ai suoi componenti. La questione dell’indipendenza e dell’autorevolezza degli arbitri è determinante: l’arbitro, quale che ne sia l’estrazione deve, non meno del giudice togato, essere e apparire imparziale nel corso di tutto il processo e all’atto della decisione. Sul piano del parametro costituzionale, ai fini di un’ulteriore conferma del ruolo e della funzione giurisdizionale dell’arbitrato, si può immaginare l’utilizzo dell’art. 118 Cost., che disciplina la sussidiarietà ( orizzontale). La torsione verso una maggiore sensibilità nei confronti del privato e una conseguente riduzione dell’interventismo pubblico sta avvenendo, in Italia e non senza poche difficoltà, soprattutto a seguito della costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà ( ex art. 118 Cost.), che si è determinata con legge cost. del 2001. Infatti, la forza espansiva del principio di sussidiarietà, vero snodo di procedura costituzionale attraverso il quale si subordina il pubblico al privato, oltreché incidere sulle attività economiche e dei servizi sociali, si innerva anche nella giurisdizione, in modo tale che l’intervento autoritativo giurisdizionale finisce con l’essere considerato l’ultima chance a disposizione dei soggetti in lite, quando le soluzioni alternative non sembrano raggiungere lo scopo. La sussidiarietà della giurisdizione, quindi, consiste nel favorire le parti in una controversia verso una serie di soluzioni alternative al giudizio ordinario: dalla risoluzione negoziale diretta tra le parti, alla conciliazione, all’arbitrato. Ovviamente, solo quando si tratta di diritti disponibili. Certo, non è solo una nuova concezione della forma di Stato, con la ( consequenziale) codificazione costituzionale del principio di sussidiarietà, ad avere consentito l’espandersi del favor arbitratus in Italia. C’è anche la questione dell’abuso del processo, ovvero l’esasperata conflittualità, e pertanto un eccesso di richiesta di tutela presso i tribunali ( secondo dati ministeriali ci sono oltre quattro milioni di ricorsi all’anno davanti al giudice civile). C’è quindi una sempre maggiore inadeguatezza, a seguito dell’ingolfamento della domanda di giustizia, del “sistema giustizia” statale a fornire un servizio tempestivo ed efficiente. C’è pertanto una “irragionevole” durata dei processi ( a dispetto dell’art. 111 Cost.), che porta ad avere una decisione, dopo essere passati attraverso tutti i gradi di giudizio, in un tempo spaventosamente lungo, che può arrivare financo a dieci anni e più dall’introduzione del ricorso ( con la conseguente condanna dell’Italia da parte della Corte Edu, ex art. 6 della Cedu). Certo, l’arbitrato non è la soluzione ma senz’altro una delle soluzioni, come da tempo dimostrato, tra gli altri, dalle esperienze di diritto comparato.