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Quando finalmente la pandemia sarà alle spalle saremo tutti diversi, singolarmente e come comunità nazionale. Non soltanto per le conseguenze economiche che si preannunciano, specie per alcuni milioni di connazionali, gravissime e nemmeno per il dolore provato dai famigliari delle vittime o per la paura che ha attraversato tutta la penisola e ci ha costretti a limitazioni della libertà inimmaginabili fino a ieri.
Di certo il tempo attenuera' l’impatto traumatico del virus.
Dovranno passare mesi ( anni?) perchè si possa ragionare a mente fredda su quanto accaduto, ma ogni italiano ritroverà il proprio personale equilibrio, tornera' alla vita normale, quella di tutti i giorni.
Probabilmente abitudini consolidate non saranno più tali e nuovi modi di intendere i rapporti sociali si affermeranno, comunque l’Italia ce la farà, si rimetterà in piedi. E' una certezza che non è figlia di un retorico ottimismo della volontà, bensì della storia del nostro popolo che nel passato ha dimostrato di possedere la forza morale e le capacità per superare le tragedie. Accadrà di nuovo, nonostante i vizi congeniti della nostra ' italianità ' e i mille guasti del nostro sistema- paese. Eppure, anche quando il PIL sarà risalito e, auguriamocelo, la nostra società sarà complessivamente migliore di oggi, anche allora dovremo avere consapevolezza che il coronavirus ci ha tolto per sempre una parte, piccola ma importante, della nostra memoria collettiva, del nostro essere una comunità nazionale.
E ciò perché insieme ai tanti, troppi ' anziani' scomparsi se ne è andata la loro voce, la loro personale testimonianza, la loro esperienza, la loro autorevolezza morale. Le nonne e i nonni deceduti per il virus erano la generazione nata nei primi decenni del Novecento, la generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale e aveva memoria diretta della prima. La generazione della ricostruzione e del boom economico, del benessere diffuso. A loro nessuno ha regalato nulla, ci hanno pensato da soli a far ripartire l’Italia. Hanno lavorato duramente, hanno risparmiato, hanno messo su famiglia. Hanno preparato quel domani che noi abbiamo vissuto e che pensavamo fosse patrimonio inalienabile dei nostri figli.
Tanti, troppi di loro se ne sono andati senza nemmeno il conforto dell’ultimo saluto dei famigliari. Il virus ha sfregiato la loro vita privandoli anche del funerale. La morte di un ' nonno' è spesso l’occasione per riflettere sul valore pedagogico dell’esperienza, su cosa significhi davvero ' essere un buon esempio'.
Quando muore un ' grande vecchio', un cittadino illustre, e' usuale e giusto ricordarlo pubblicamente e lodarne le virtù. Troviamo il modo di farlo anche per i tanti, troppi ottantenni anonimi uccisi dalla pandemia. Con loro se ne è andata una parte, piccola ma importante, della memoria del nostro popolo, un frammento del ' come eravamo'. Il loro ricordo non deve essere custodito solo da chi li ha amati. Deve rimanere nella memoria collettiva.
Nel loro nome facciamo nostre queste parole del giornalista abruzzese Antonio Bini: «Ho conosciuto una signora novantenne di San Benedetto in Perillis tornata dall’America dove era emigrata. Custodiva la chiave della antichissima chiesa del paese e, seppur semianalfabeta, l’apriva e faceva da guida, ne illustrava la storia e i riti religiosi... Sono tanti gli anziani come lei che custodiscono i luoghi e le loro antiche memorie». Oppure rileggiamo Seneca nel De Senectute: «Hanno vissuto a lungo per insegnare a noi cos'è davvero la vita».