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L’Europa ai tempi del Covid- 19: perché non possiamo non dirci ( e restare) europei.
Difficilmente si poteva immaginare un passaggio così difficile per il destino dell’integrazione europea. In questi giorni sull’Europa cinica e bara abbiamo sentito dire di tutto, veramente di tutto. Che la Germania è l’unico Stato Membro a trarre benefici dall’Unione, che i Paesi del Nord Europa sono egoisti, che con la lira ci saremmo difesi molto meglio che non con l’Euro, che non possiamo farci tiranneggiare dagli strapagati eurocrati di Bruxelles, che gli europarlamentari hanno anche il pessimo vizio di viaggiare avanti- indietro tra Bruxelles e Strasburgo, per non dire di quando osano legiferare su argomenti privi di glamour, tipo la lunghezza delle banane ( Boris Johnson).
La ciliegina sulla torta è che non vogliamo utilizzare il MES, anche se abbiamo partecipato alla sua istituzione nel 2011, lo abbiamo finanziato e abbiamo appena contribuito a rimodellarlo (“MES sanitario”). Ma non ci vogliamo sporcare le mani utilizzandolo, quasi come se la nostra Sanità non ne avesse bisogno. Noi siamo al di sopra di questi strumenti ( Conte) quindi o Coronabond o nulla.
Piuttosto “facciamo da soli”...
E invece, sebbene critico, questo passaggio dovrebbe essere colto come occasione per il rilancio del progetto europeo, a cui l’Italia ha tanto contribuito a partire dalla fondazione, nel 1952, della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, insieme agli altri cinque partner storici ( Germania e Francia, oltre Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo).
Se il momento è difficile, ciò non di meno esso può essere quello giusto perché l’Italia, anziché rifugiarsi nel proprio orticello, abbia finalmente un nuovo sussulto europeista, con cui - richiamando le migliori energie dei momenti più bui come nel secondo dopoguerra o più creativi come quello del Risorgimento - spingersi verso il futuro di una maggiore integrazione con gli altri partner.
Questo è l’unico modo per superare il momento di paura per la salute, che si somma all’incertezza per il futuro lavorativo e per la tenuta del tessuto sociale ed economico.
Una tale percorso non può prescindere dallo sforzo di capire anche le ragioni degli altri.
Per esempio, dei contribuenti degli Stati del Nord con i conti in ordine, che hanno fatto sacrifici per tenerli tali, e che farebbero volentieri a meno di assumersi gli oneri derivanti dal passato di un paese grande e “spendaccione” come l’Italia. Tanto più se alcuni nostri “autorevoli” esponenti politici ipotizzano periodicamente l’uscita dall’Euro o l’aperta violazione delle regole già condivise ed approvate.
Ma soprattutto dobbiamo chiederci: cosa farebbe l’Italia fuori dall’Europa?
L’esito è purtroppo già scritto.
Russia e Cina non aspettano altro per trarre, da una Europa sempre più debole, sempre maggiore spazio di manovra per rafforzare i propri interessi, non solo economici, ben lontani dai nostri.
Ma il nostro futuro non può essere in un rapporto più stringente con questi paesi, dalla cultura politica dominante così diversa dalla nostra e con cui cosi poco condividiamo su valori fondanti e decisivi quali il rispetto dei diritti fondamentali, la democrazia liberale, politica ed economica, i principi di società aperta, solidarietà e sviluppo sostenibile, tutti peraltro in qualche modo derivanti dalle radici cristiane e greco- romane, comuni invece ai nostri partner europei.
Questi sono proprio i valori su cui i migliori uomini dei paesi ex belligeranti, tra cui Adenauer e De Gasperi, insieme a Schuman, realizzando i sogni di Spinelli e preconizzati da Churchill, hanno intrapreso, tra mille difficoltà, un percorso faticoso, in salita, che ha portato però a quasi 80 anni di pace e diffusa prosperità. E questo hanno fatto proprio dopo aver constatato i frutti velenosi delle rivalità nazionali nel vecchio continente che, nel giro di trent’anni, hanno ripetutamente devastato l’Europa del ‘ 900, con il tributo di sangue, lacrime, morte e distruzione che dovremmo tutti tenere a mente.
E’ vero, l’edificio euro- unitario è, come tutte le creazioni dell’Uomo, tanto più quelle politiche, ben lontano dalla perfezione. Del resto, l’integrazione europea ha una fragilità innata, quasi un peccato originale, derivante dall’essere una Unione di popoli e Stati sovrani che vogliono sì stare insieme, ma senza in alcun modo abdicare alla tutela dei vivaci e molteplici interessi nazionali e regionali.
Nonostante tutto ciò è comunque solo in questo quadro, e non certo in altre alleanze, che l’Italia più responsabile può proseguire nel percorso di modernizzazione necessario per costruire il futuro a cui, giustamente, anelano le nuove generazioni.