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«La terzietà, signori, è un’ipotesi. Un’astrazione. Che si realizza in tanti giudici, sia chiaro. Ma in tanti altri fa fatica a venire fuori. E lo si vede, certo, anche dalle distorsioni del controesame. Aspetto cruciale nella formazione della prova ma che, come il Dubbio ha raccontatolo in questi giorni, spesso finisce per essere complicato dall’atteggiamento del giudice». Gian Domenico Caiazza interviene su un fenomeno raccontato dal Dubbio ma di solito ignorato dal mainstream: gli ostacoli posti dal giudice nei confronti della difesa. La questione è riemersa al processo per la morte del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, in particolare durante il controesame dei teste d’accusa. Caso emblematico, certo non un isolato. A parlarne al nostro giornale è stato l’avvocato Renato Borzone, difensore di Lee Elder, uno dei due giovani Usa condannati all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso il militare. Borzone è stato l’avversario di Caiazza al congresso che ha eletto presidente l’attuale vertice dell’Unione Camere penali. Circostanza che un po’ ricorda come l’ostruzionismo da parte dei giudici durante il controesame sia un problema davvero trasversale per i penalisti.
Presidente Caiazza, sono i segnali di un nuovo modello processuale in cui la riduzione dei tempi fa premio su tutto, garanzie comprese?
Intanto diciamo che la logica dell’efficientismo, che non vuol dire efficienza, del produttivismo come obiettivo principale e prioritario, è molto condizionante nell’operato dei giudici, non da ora. Altra premessa: io non mi sento di operare generalizzazioni, molti giudici fanno scrupolosamente il loro lavoro, e non è quella di comprimere i tempi della difesa la loro prima preoccupazione. Dopodiché ce ne sono tanti altri che spesso compiono interventi, in particolare in fase di controesame, in modo fin troppo pressante: come se l’approfondimento del tema della prova potesse costituire un intralcio, superati certi limiti e certe soglie. Ancora: è vero che il nostro codice lascia al giudice il potere di governare la prova, di eliminare le prove superflue o ridondanti. Ma detto tutto questo, il problema c’è, e si verifica proprio quando il giudice si spinge oltre tale potere di selezione.
E come si spiega? Con una diffidenza nei confronti dell’avvocato, che persino il giudice considera segnato dalla colpa di schierarsi col malfattore?...
Ecco, qui siamo di fronte a un altro profilo della questione. Inevitabilmente e strettamente connesso con la terzietà, con la cultura e la consapevolezza della propria terzietà di cui ogni magistrato giudicante dovrebbe essere provvisto. Ebbene, nel nostro sistema penale, tale cultura della terzietà non può radicarsi in un oggettivo elemento ordinamentale perché, come ben sappiamo, le carriere di requirenti e giudicanti non sono separate. La terzietà è un aspetto cruciale nella formazione del giudice, ma è affidato esclusivamente alla cultura del singolo, e per questo finisce per essere più un’eccezione che la regola.
Ecco cosa significa non avere carriere separate.
Il giudice deve riuscire in uno sforzo di consapevolezza tale da diffidare, diciamo così, del pubblico ministero, rispetto al quale è terzo nel processo. Ma quel pubblico ministero, ricordiamolo, proviene dal suo stesso concorso, condivide con lui la stessa appartenenza associativa, e molto semplicemente è legato a lui, al giudice, dalla frequentazione quotidiana degli stessi uffici. Ed ecco che fatalmente il giudice è spinto a percepire il proprio ruolo come contrario all’operato del difensore.
Un dato gravissimo.
Che noi avvocati percepiamo molto spesso. E che d’altra parte non è ascrivibile praticamente mai a una prava volontà di alterare gli equilibri fra le parti: è un atteggiamento spiegabile con riflessi condizionati. Il giudice si sente istintivamente portato a preservare l’apparato accusatorio. E più vede il teste d’accusa in difficoltà, più accorre in suo aiuto, fino a contenere di molto l’efficacia del controesame condotto dal difensore.
In pratica viene meno il senso stesso del controesame.
Certo, anche considerato che il controesame del teste d’accusa da parte del difensore, così come quello ad opera del pm sui teste della difesa, può essere condotto anche con metodi suggestivi, con tecniche di pressione, anche psicologica, in modo da poter smascherare l’eventuale mendacia del teste. Ebbene, soprattutto quando la pressione del difensore mette in difficoltà un ufficiale di polizia giudiziaria chiamato a testimoniare dall’accusa, si assiste al soccorso del giudice.
È la stessa logica in base alla quale Davigo chiede da anni di risparmiare, agli ufficiali di pg, la ripetizione in dibattimento delle dichiarazioni rese in fase preliminare.
Sì, solo che è normale se lo dice Davigo, un pm, non se a tale schema aderisce un giudice. Ma ci risiamo con il nodo della comunanza delle carriere.
Gli obiettivi di taglio dei tempi imposti dall’Ue come condizione per il Recovery fund rischia di esasperare gli atteggiamenti sbrigativi dei giudici?
Purtroppo me lo aspetto. E invece vorrei tanto che quell’ansia da riduzione dei tempi si dirigesse verso i tempi morti del processo. Non sull’attività che noi difensori possiamo finalmente svolgere nel dibattimento. Come Ucpi lo abbiamo detto a Reynders, il commissario Ue alla Giustizia, che abbiamo incontrato durante la sua visita in Italia: sappiamo che la critica europea più ficcante riguarda la durata dell’appello, più che tripla rispetto al resto dei Paesi membri, ma è necessario tenere presente che nella maggior parte dei giudizi di secondo grado c’è solo una, dico una, udienza. Se abbiamo più imputati, si può arrivare a tre, massimo quattro. Parliamo di pochi mesi di processo vero. Gli altri 4 anni e 9 mesi trascorrono perché, semplicemente, il fascicolo è fermo. E allora perché ve la prendete con noi avvocati e siete sempre pronti a contestarci le troppe domande?