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Una volta - lasciatevelo raccontare da un vecchio cronista che ha consumato un po’ di suole nei corridoi parlamentari e altrove inseguendo leader, leaderini e peones di ogni colore ed età- quando i professori facevano i professori e i politici facevano i politici, i primi rinunciando alle prosopopee accademiche e i secondi stando bene attenti a rimanere con i piedi per terra, le uniche intese che rimanevano sospese per aria sui provvedimenti da mandare alle Camere erano quelle suppletive che all’interno della maggioranza, o fra la maggioranza e le opposizioni di turno, potevano essere raggiunte in sede parlamentare.
Da qualche tempo, non certo soltanto da quando il professore Giuseppe Conte è approdato a Palazzo Chigi ma con una frequenza maggiore rispetto a prima, la formula del “salvo intese” nell’annuncio di disegni di legge e, ancor più, di decreti legge passati per l’esame del Consiglio di Ministri, di giorno o di notte, è diventata così abituale da non fare ormai più notizia. Lo stupore subentra solo quando questa formula viene a mancare e i provvedimenti passano dalla mattina alla sera, o dalla sera alla mattina, da Palazzo Chigi al Quirinale. Dove il capo dello Stato ne autorizza la presentazione alle Camere, quando si tratta di disegni di legge, o la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e l’operatività immediata quando si tratta di decreti legge. Le intese che il governo di turno lascia sospese per aria non sono più quelle parlamentari, col vecchio gioco degli emendamenti, come vengono chiamate le proposte di modifica, ma quelle all’interno dello stesso esecutivo. E qualche volta neppure di genere politico, riferito agli esperti o “responsabili” dei partiti, ma di livello genericamente “tecnico”, intendendosi per tecnici i burocrati, consiglieri, capi di gabinetto e via discorrendo.
Vi confesso che ho faticato a credere alla pur brava Maria Teresa Meli - che mi onoro di avere a suo tempo sottratto all’anonimato di un’agenzia per farne una firma politica di punta sul Giorno che dirigevo da qualche anno, a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta- quando ho letto sul Corriere della Sera della impazienza di Conte nell’ultima, lunghissima riunione notturna del Consiglio dei Ministri, quando non si riusciva proprio a venire a capo della cinquantina di articoli del decreto legge sulle semplificazioni, definito dallo stesso Conte qualche giorno prima, dopo un bel po’ di rinvii, “la madre di tutte le riforme” per il rilancio dell’Italia. «Io tra qualche ora - ho letto di Conte nell’articolo della Meli- ho la conferenza stampa e poi devo presentare questa riforma in Europa. Quindi le cose da risolvere le lasciamo ai tecnici».
Incredulo, mi sono permesso una verifica chiamando qualche ministro e ottenendo una conferma di cui chiedo scusa alla collega del Corriere, perché meritava di essere creduta sulla parola, precisa anche nell’indicazione dell’ora in cui il presidente del Consiglio aveva deciso di chiudere la riunione di governo: “le quattro e mezza della mattina” dell’altro ieri. Non vorrei sembrarvi troppo pessimista o, peggio ancora, prevenuto dopo i tanti “salvo intese” cui sono ricorsi i due governi Conte e quelli precedenti, ma sono pronto a scommettere su come si concluderà quello del decreto sulle complicazioni. I “tecnici” si prenderanno tutto il tempo che vorranno, aspettandosi anche i ringraziamenti dei parlamentari. Ai quali - ha spiegato proprio la Meli- sarà risparmiato di essere disturbati a breve per la seduta della Camera o del Senato necessaria entro cinque giorni per la presa d’atto del decreto legge infine sfornato, non so neppure - a questo punto- se dopo un ritorno del provvedimento in Consiglio dei Ministri. Anche di questo almeno una volta si è fatto a meno tanto clamorosamente da essersi il presidente Conte guadagnato un richiamo del presidente della Repubblica, cortese nella forma ma fermo nella sostanza, com’è consuetudine di Sergio Mattarella.
Quando infine il provvedimento arriverà alle Camere per la cosiddetta conversione, che peraltro coinciderà con la calda campagna elettorale per le regionali del 20 settembre, il governo si accorgerà di non avere più i margini sufficienti per un confronto senza forzature e ricorrerà al solito voto di fiducia. Così si riuscirà ad eliminare in un solo colpo le proposte di modifica provenienti dalla maggioranza e dalle opposizioni, e sedare con la pur traballante ormai disciplina di gruppo le residue dissidenze giallorosse o giallorosa.
E’ curioso, assai curioso, sotto certi aspetti persino comico, che le opposizioni di centrodestra, non importa a questo punto se separatamente o tutte insieme, siano state invitate da Conte a un incontro a Palazzo Chigi, che naturalmente è stato rapidamente rifiutato e rinviato. Di che cosa avrebbero dovuto discutere il presidente del Consiglio e i ministri interessati con leghisti, fratelli o sorelle d’Italia e forzisti se il decreto legge sulle semplificazioni o - ripetola madre di tutte le riforme mancava, e manca ancora, delle intese politiche e tecniche necessarie per farne un testo su cui parlare, e magari anche trattare.
Meno male che a nessuno è venuta in mente l’idea di organizzare direttamente l’incontro delle opposizioni con i “tecnici” ai quali il presidente del Consiglio ha affidato la creatura, nel frattempo presentata e illustrata ai suoi omologhi in un tour europeo di grande risonanza mediatica, come sono diventati ormai tutti gli appuntamenti internazionali di Conte. Che all’estero sembra trovarsi meglio che in Italia, salvo qualche turbamento riservatogli dalle notizie giuntegli da Roma. E’ appena accaduto a Madrid per la storia del nuovo ponte di Genova progettato da Renzo Piano e realizzato in tempi da record. Ma che la ministra piddina delle Infrastrutture Paola De Micheli ha disposto di affidare alle Autostrade dei Benetton salvo revoca: variante, evidentemente, del “salvo intese” dei disegni di legge e decreti legge. Le brutte abitudini - si sa- sono quelle che si prendono più facilmente, o si abbandonano più faticosamente.