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Roma, 29 giugno 1985, ore 10. Squilla il telefono. Non appena rispondo, sono sommerso da un fiume in piena. “Professor Armaroli, so tutto di lei. E’ un bravo docente di diritto costituzionale all’Università di Genova. Mi dica: quanti presidenti della Repubblica ci sono in questo momento?”. Dall’altro capo del filo sospetto che ci sia un imitatore impareggiabile del Nostro come Paolo Guzzanti. E invece no, è Sandro Pertini in persona. Conte per un Mattarella bis al Quirinale ma la rielezione è sempre stata una chimera
Con un filo di voce rispondo: “Uno solo, Lei signor Presidente”. “Ah no, mi delude. C’è quello là, il sardo, fiduciato dal Parlamento, e ci sono io, il pirla, sfiduciato dal Parlamento. Ma io mi dimetto oggi stesso e le mando per motociclista l’atto delle dimissioni. Voglio proprio vedere che cosa scriverà sul suo giornale, ‘ Il Tempo’. E mi venga a trovare, perché a momenti sarò senatore di diritto e a vita”.
In effetti, il 24 giugno il Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali aveva “fiduciato” Francesco Cossiga con 752 voti al primo scrutinio. Come in seguito capiterà solo a Carlo Azeglio Ciampi. E “sfiduciato” con appena dodici voti Pertini, che alla rielezione teneva da morire. A dispetto delle 89 primavere sulle spalle. Mi telefonò – probabilmente su suggerimento del segretario generale Antonio Maccanico, che conoscevo bene – perché dal giorno dell’elezione di Cossiga mi domandavo sul giornale perché mai a pochi giorni dalla fine del mandato Pertini avvertisse il prepotente bisogno di mandare tutti quanti a quel paese. Ma il motivo era di un’evidenza solare. Non a caso il giorno prima si rivolse al presidente dell’Accademia dei Lincei Montalenti, prossimo alla scadenza, in questi termini: “Anche lei scadente?”. “Scaduto”, rispose piccato l’altro. E un Pertini sconsolato così concluse: “Guardi che anche scaduto è una brutta parola”.
Le bizze di Pertini sono proverbiali. Pietro Nenni diceva che in vita sua Pertini aveva letto soltanto gli Albi dell’Intrepido. Ma, attore consumato qual era, è stato il più popolare degli inquilini del Quirinale. Novello Garibaldi, non se ne poteva dir male e gli era concessa ogni cosa. Perfino la nomina di due senatori a vita in soprannumero, quali Bo e Bobbio. Il mandato di Pertini scadeva il 9 luglio. A seguito delle sue dimissioni anticipate, Cossiga, nella sua veste di presidente del Senato, esercitò la supplenza fino al 3 luglio. Quando, prestato il giuramento, entrò nell’esercizio delle funzioni presidenziali. Ma Pertini non è l’unico presidente che ha sperato fino all’ultimo nel bis. La maggior parte dei suoi predecessori non è stata da meno. A cominciare dal cerimonioso Enrico De Nicola, che ci teneva moltissimo senza darlo troppo a vedere. Ma gli fu preferito Luigi Einaudi perché don Enrico, fine giurista, grande avvocato, presidente della Camera nei primi anni Venti, era un insuperabile piantagrane. A parte i dimissionari Segni e Leone, e Cossiga, la cui uscita dal Colle fu una liberazione per i suoi avversari e per lui stesso, un po’ tutti – prima e dopo Pertini – fecero un pensierino alla riconferma.
L’Assemblea costituente, del resto, non ebbe obiezioni a un’eventuale rielezione. Tant’è che bocciò tutti gli emendamenti volti a prevedere la non rieleggibilità. Anche solo immediata, come propose Togliatti. Fatto sta che un doppio mandato al Quirinale, per complessivi quattordici anni, farebbero del presidente della Repubblica una sorta di monarca. Per questo si affermò la consuetudine della non rielezione degli inquilini del Colle, smentita dal solo Giorgio Napolitano con un bis a tempo. Nel messaggio d’insediamento del 22 aprile 2013 dirà di esercitare il secondo mandato “fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. E si dimetterà il 14 gennaio 2015.
Il 27 settembre scorso, con un’esternazione inusuale, anche perché con largo anticipo sulla scadenza del mandato, Giuseppe Conte ha auspicato la rielezione di Mattarella, “persona equilibrata, saggia, con esperienza e anche alla mano”. A voler essere maliziosi, si potrebbe supporre che il presidente del Consiglio pro tempore abbia inteso prendere due piccioni con una fava: acquisire un supplemento di “fiducia” da Mattarella, dal momento che la fiducia parlamentare oggi c’è e domani chissà; e promuovere la propria candidatura al Quirinale per interposta persona particolarmente autorevole.
Si fa un gran parlare di Niccolò Machiavelli. In pieno agosto, nei giorni caldi della crisi ministeriale, Matteo Renzi ne ha discusso a Castelvecchio Pascoli con più di duecento giovani alla scuola della politica. E Luciano Violante lo ha evocato in un articolo nei giorni scorsi. Ma Conte, l’apprendista volpe di Palazzo Chigi che deve guardarsi da Salvini e Renzi, fa di più. Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano di domenica sospetta che solo uno dei tre sopravvivrà. Temendo il peggio, Conte ha così pensato bene di metterlo in pratica, il segretario della Repubblica fiorentina. Giorno dopo giorno.