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In attesa di vedere se e come la maggioranza giallorossa riuscirà a trovare in Parlamento a tempo debito un’intesa sul documento che dovrebbe permettere al presidente del Consiglio di partecipare in sede comunitaria alle decisioni sul controverso meccanismo di stabilità o fondo salva- Stati, salgono di tono all’interno della coalizione di governo, e fra una parte di essa e l’opposizione di centrodestra, sulla nuova disciplina della prescrizione che scatterà il 1° gennaio prossimo. I cui effetti, non riguardando i processi in corso ma quelli per i reati da compiere da quella data in poi, hanno reso il presidente del Consiglio un po’ impermeabile alle proteste al pari del guardasigilli, convinti entrambi che vi sia tutto il tempo per interventi correttivi.
Contestata invece da fior di giuristi, costituzionalisti e avvocati, ricorsi anche allo sciopero e ad assemblee fuori e dentro i tribunali, la riforma ha già prenotato nel codice il blocco, cioè la soppressione, della prescrizione al momento del giudizio di primo grado. E ciò a prescindere dall’applicazione finalmente concreta e vincolante della “ragionevole durata” del processo stabilita dall’articolo 111 della Costituzione con una modifica risalente - pensate un po’- a vent’anni fa. Durante i quali l’Italia si è guadagnata in Europa il primato costoso, sotto tutti i punti di vista, delle censure per l’eccessiva e per niente ragionevole lunghezza dei processi.
Con la nuova disciplina il primato diventerebbe mondiale. Si realizzerebbe, anche per un imputato assolto in primo grado con una sentenza impugnata dall’accusa, il fenomeno del processo a vita o dell” ergastolo del processo”, secondo la drammatica ma azzeccata espressione coniata dal sociologo ed ex parlamentare di sinistra Luigi Manconi, noto per una misura di sincero garantismo un po’ controcorrente dalle sue parti politiche, dove sono generalmente garantisti a corrente alternata, secondo i casi personali o le circostanze politiche, per non chiamarle convenienze.
Voluta ad ogni costo dai grillini, durante l’esperienza del governo gialloverde con i leghisti, nella cosiddetta legge spazzacorrotti; criticata persino dal Consiglio Superiore della Magistratura ma ugualmente promulgata undici mesi fa dal presidente della Repubblica, e dello stesso Consiglio Superiore, con l’eroica speranza che nel frattempo la maggioranza volesse e sapesse riformare il processo penale per abbreviarne davvero la durata, i nodi della soppressione affrettata della prescrizione sono impietosamente arrivati tutti al pettine.
I grillini, confortati dal presidente del Consiglio, fiducioso nel solito compromesso all’ultimo momento e convinti di avere piantato nell’ordinamento giudico una bandiera con le loro mitiche cinque stelle, sono contenti come una Pasqua. E scambiano tutti gli avversari o semplici critici, nella maggioranza e all’opposizione, che reclamano il rinvio della nuova disciplina al momento in cui saranno definiti i tempi davvero “ragionevoli” dei processi, per complici dei delinquenti di ogni risma, o – sul piano politico- del solito e odiato Silvio Berlusconi. Che rimane ai loro occhi il prototipo, diciamo così, del male, pur all’età che ha, con i debiti con la giustizia regolarmente pagati, col ruolo che ancora gli conferiscono liberamente gli elettori e con una qualità di frequentazioni internazionali che i suoi avversari sono costretti a invidiargli.
Nello spettacolo delle proteste e delle recriminazioni il ruolo più scomodo e imbarazzante, bisogna dirlo con chiarezza e forza, è quello dei leghisti, senza il cui consenso, la cui tolleranza, la cui disinvoltura - chiamatela come volete- mai e poi mai i grillini sarebbero riusciti a infilare come una supposta la sostanziale e incondizionata soppressione della prescrizione nella legge “spazzacorrotti”.
A carico dei leghisti, il cui capogruppo alla Camera Riccardo Molinari ha appena accusato il Pd di non avere il coraggio di contrastare davvero la posizione irremovibile del Movimento 5 Stelle, avendo contribuito a negare l’urgenza ad un intervento correttivo proposto dai forzisti, gioca come aggravante la qualità della persona delegata da Salvini nel governo gialloverde ad occuparsi di questa vicenda.
E’ l’avvocato di grido e di grinta, allora ministra della funzione pubblica, Giulia Bongiorno. Che giustamente, con l’esperienza professionale che si ritrova, definì allora, e continua a definire oggi, “una bomba atomica” quella imposta dai grillini. Ma per lealtà o obbedienza politica anche lei dovette fare buon viso a cattivo gioco e scommettere - ahimè- sulla ragionevole e successiva disponibilità degli allora alleati di governo a disinnescare la bomba al momento giusto.