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Impossibile pensare di rilanciare il Paese relegando ad un fatto secondario la giustizia penale. A dirlo è Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, che al Dubbio ricorda come non sia solo la giustizia civile ad incidere sull’economia e la ripresa dell’Italia: «La giustizia penale - spiega - coinvolge e travolge diritti fondamentali, dei singoli, e spesso ha conseguenze incapacitanti ed esiziali anche per le imprese». E sulla prescrizione ricorda: «È un istituto di civiltà giuridica che garantisce un preciso equilibrio nei rapporti tra cittadino e Stato».
Professore, quale strada deve seguire il governo Draghi per la giustizia?
Penso che tra le priorità dovrebbe essere inserita – e se ne discute da tempo - la giustizia penale, che investe i diritti dei cittadini e rappresenta il sismografo dello Stato di diritto: bisognerebbe prendere atto che la giustizia penale è una risorsa scarsa, che va impiegata con parsimonia. Oggi si punisce moltissimo in astratto e si persegue moltissimo in concreto, con un gap spesso eccessivo tra processi instaurati e sentenze di condanna, ed un costo elevatissimo per i soggetti che comunque vengono coinvolti e travolti nel procedimento, oltre che una complessiva perdita di autorevolezza e di fiducia nell’amministrazione della giustizia. Servono misure di sistema che assicurino una forte riduzione dell’attuale ipertrofia punitiva, prendendo sul serio il principio di extrema ratio e l’idea- forza che vincoli rigorosamente la privazione della libertà personale al “minimo sacrificio necessario”: dunque, una radicale depenalizzazione, non limitata ad ipotesi di reato che hanno poca o nessuna incidenza nella prassi; potenziamento degli istituti sostanziali e processuali che consentano di filtrare condotte “bagatellari” o caratterizzate – in concreto - da disvalore trascurabile ( anche ampliando istituti come la non punibilità per particolare tenuità del fatto o la messa alla prova, ma anche l’estinzione del reato per condotte riparatoria, tutti ancora molto asfittici e poco appetibili per l’indagato); potenziamento dell’udienza preliminare come fondamentale momento di filtro sulle “imputazioni azzardate”; incremento dei riti alternativi al dibattimento, con incentivi che davvero ne assicurino la funzionalità; tempi contingentati per il processo.
Al momento il penale sembra essere escluso dai programmi, puntando più sul civile e collegandolo all’urgenza si risollevare l’economia. Si rischia di perdere un’occasione?
Mi pare evidente che il problema della giustizia penale non possa apparire secondario. Sono ben comprensibili le conseguenze che le inefficienze della giustizia civile produce sull’economia, ma la giustizia penale non può essere un posterius, né sul piano logico né su quello assiologico: coinvolge e travolge diritti fondamentali, dei singoli, e spesso ha conseguenze incapacitanti ed esiziali anche per le imprese, se solo si pensa ai tempi irragionevoli in cui vengono mantenuti sequestri cautelari per somme spesso elevatissime, con conseguenze drammatiche in termini finanziari ed economici che spesso conducono al fallimento di pur floride realtà imprenditoriali.
Sembrano già essere in atto scontri sul tema prescrizione. Crede che l’anima garantista della maggior parte dei partiti che hanno dichiarato di voler sostenere Draghi riusciranno a spuntarla sull’anima giustizialista del M5S?
L’istituto secolare della prescrizione del reato è stato modificato – o, meglio, neutralizzato - con una stupefacente insensibilità per le garanzie e i diritti fondamentali che ad esso sono riconnessi, e con notevole miopia per le ricadute conseguenziali, specie sul piano pratico, che tra qualche anno si manifesteranno – verosimilmente – subissando le Corti d’Appello con un carico di lavoro insostenibile. Questo istituto è stato l’idolo polemico dietro al quale nascondere le molte inefficienze dell’apparato punitivo statale, un totem da abbattere – come in effetti poi avvenuto - dietro al quale si nascondeva il tabù delle riforme processuali da intraprendere per garantire un processo giusto in tempi ragionevoli. L’Unione delle Camere penali ha avuto il merito di stimolare una sensibilità più diffusa ed informata su questo istituto, facendone comprendere il profondo significato di garanzia, ed alimentando una consapevolezza che poi ha trovato adesioni crescenti anche nel mondo della politica: spero che ora sulle battaglie ideologiche prevalga la ragionevolezza e il buon senso, ed una forma di “ravvedimento operoso” che conduca a rivedere le scelte compiute in una prospettiva attenta ai principi costituzionali. Ciò che è certo è che un regime di prescrizione definito e dal perimetro limitato va ripristinato con urgenza, trovando un adeguato bilanciamento tra esigenze contrapposte: da un lato, nessuno lo nega, l’esigenza di assicurare l’effettività dell’azione di accertamento dei reati entro tempi ragionevoli; dall’altro, con un peso evidentemente diverso e mai trascurabile, i diritti e le garanzie fondamentali dell’imputato che, lo ricordiamo, si presume innocente sino alla condanna definitiva, e che dunque non può restare in balìa del potere punitivo statale senza fine. La prescrizione - che oggi è stata “sterilizzata” dopo la sentenza di primo grado ( anche di assoluzione) - assicurava un termine massimo di protrazione del processo, e quindi in qualche modo garantiva - pur indirettamente - che la sua durata non arrivasse, come spesso capita, ad una durata irragionevole – purtroppo molto frequente nella prassi - ma assi- curava anche il diritto di difesa, la funzione rieducativa della pena, e tanti altri valori primordiali in una società civile. L’idea che il potere punitivo dello Stato sul cittadino non sia illimitato ma debba avere un termine garantisce, prima e più in alto, un preciso equilibrio nei rapporti tra cittadino e Stato, perché il cittadino – al cospetto di una potere punitivo senza limiti - diventa un suddito in balìa del Leviatano. È un problema di civiltà giuridica, che a mio giudizio merita di essere considerato una priorità e che deve essere affrontato superando la disciplina attuale, del tutto irragionevole sia sul piano dei valori che sul piano delle conseguenze pratiche.
Sul Fatto Quotidiano, il dottor Davigo ha messo in guardia i partiti “europeisti” che vogliono cancellare la norma Bonafede sulla prescrizione, richiamando una sentenza della Corte di Giustizia secondo cui la precedente versione sarebbe in contrasto con il Trattato sul funzionamento dell’Ue. È davvero così?
Stupisce, francamente, che per rilanciare la “battaglia” sulla prescrizione, e difendere la improvvida scelta compiuta con la c. d. “legge Spazzacorrotti” che di fatto ha sterilizzato questo istituto di civiltà nel nostro ordinamento, si invochi la sentenza Taricco della Corte di Giustizia: una delle decisioni maggiormente criticate dalla comunità dei penalisti con voce sostanzialmente unanime. Quella decisione, anzitutto, è stata resa muovendo da un problema settoriale e circoscritto, riferibile alla adeguatezza delle misure di tutela intraprese nei singoli Stati a protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea, investendo un profilo – quello specificamente concernente i presidi punitivi - peraltro di dubbia competenza dell’Unione; ed in ogni caso non era certo riferibile in via generale all’istituto della prescrizione, con valenza di sistema. Ciò premesso, una valenza di sistema quella decisione l’ha comunque avuta, visto che ha innescato un “dialogo” – o più esattamente un “braccio di ferro” – con la Corte costituzionale, che alla sentenza Taricco ha reagito prima con una ordinanza di ulteriore rinvio alla Corte di Giustizia, poi – dopo l’intervento di questa - con una sentenza che rappresenta una delle più fulgide e perentorie decisioni della Consulta in materia penale, nella quale si sono evidenziati non solo i molti principi costituzionali che all’applicazione della “regola Taricco” si opponevano e si oppongono, ma anche e soprattutto – andando persino oltre la singola questione – una serie di ulteriori affermazioni connotate da alto profilo garantistico, e riferibili all’assetto costituzionale, come la sottoposizione del giudice alla legge, la riserva di legge e la tassatività dell’incriminazione, l’impossibilità di affidare al giudice obiettivi di politica- criminale che spettano al legislatore, e il ripudio del giudice di scopo; così “sbarrando la strada senza eccezioni” – per usare le parole della Corte costituzionale – alle richieste della Corte di Giustizia. Come accennavo, il tema della prescrizione è una questione di carattere generale, che ha profonde radici costituzionali, ed evoca una questione di civiltà giuridica: e un problema simile non mi pare proprio che possa essere condizionato dalla questione specifica e settoriale evocata, al centro di una criticatissima sentenza letteralmente demolita dalla Corte costituzionale, men che meno paventando procedure di infrazione da parte dell’Ue che paiono, francamente, tutte da verificare nella loro plausibilità e fondatezza.
Il Cnf ricorda che al centro dei programmi per la giustizia deve comunque esserci la persona. È questa la strada?
Condivido pienamente. La persona, prima e più in alto di tutto, e nella medesima prospettiva l’imputato, che si presume innocente, devono essere posti al riparo dal rischio - sempre dietro l’angolo - di possibili errori giudiziari, rischio da scongiurare con tutti i presidi di garanzia possibili. Un sistema di giustizia penale che metta al riparo i “galantuomini” – come li definiva Carrara – dalla vessazione del potere punitivo statale, e che tuteli l’innocente con ogni cautela, non è solo un bene in sé, ma garantisce anche la fiducia nei cittadini nella giustizia, e quindi la legittimazione della magistratura stessa.