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«Quando qualcuno inizia a lottare, deve scegliere tra due dolori. Uno è vedere le nostre giovani figlie molestate ogni giorno per strada... l’altro è parlare e accettare il rischio di essere arrestati. Io ho scelto la seconda opzione». A raccontarlo, al Dubbio, è Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana che da sempre difende i diritti umani, a costo della vita. Una resistenza, dunque, che ha un prezzo e che, spiega, è disposta a pagare. Così come la sua famiglia.
Negli ultimi anni, il movimento delle donne in Iran ha visto crescere la resistenza contro il velo obbligatorio e altre leggi discriminatorie. Come vede oggi l’evoluzione di questo movimento, soprattutto dopo gli eventi del 2022 legati alla morte di Mahsa Amini? E quale ruolo pensa che gli avvocati possano avere nel sostenere e dare voce a queste lotte?
Sono molto felice di essere qui con voi e grata per questa opportunità. La questione del velo obbligatorio, che oggi rappresenta un simbolo centrale della lotta delle donne in Iran, è davvero significativa. Negli ultimi anni, in particolare nell’ultima decade, le donne hanno scelto di concentrarsi su questa battaglia, più che su altre leggi discriminatorie come quelle sull’eredità o il “prezzo del sangue” (la compensazione finanziaria versata alla vittima o gli eredi di una vittima nei casi di omicidio o per lesioni personali, ndr).
Dopo oltre tre decenni di lotte per riottenere i propri diritti, le donne hanno capito che era necessario tornare al punto di partenza: il velo. È proprio lì che i loro corpi sono stati per la prima volta controllati dagli uomini, dai patriarchi al potere. Ogni giorno sono costrette a indossare qualcosa che definisce la loro identità pubblica, che è decisa da altri. Questo è il punto cruciale. La violazione dei diritti delle donne in Iran, infatti, è iniziata con l’imposizione del velo obbligatorio, che è stato il primo strumento di controllo sul corpo femminile, da cui sono poi derivate altre leggi altrettanto oppressive. Le donne, dunque, hanno scelto di iniziare da lì: respingere il velo come simbolo della negazione della libertà e del controllo maschile sui loro corpi. Questa lotta non riguarda solo il diritto di vestirsi come si desidera, ma è una battaglia per il controllo sulla propria vita e sulla propria identità.
In questo contesto, il movimento che ha preso piede dopo la morte di Mahsa Amini ha rappresentato un punto di svolta, non solo per le donne ma per tutta la società. È significativo che, in questa lotta, molti uomini e avvocati abbiano deciso di unirsi, onorando il loro giuramento e il loro impegno per la giustizia. Più di 170 avvocati sono stati perseguitati, incarcerati o multati per aver difeso le donne coinvolte nelle proteste contro il velo obbligatorio, dimostrando che questa battaglia per la libertà è davvero un impegno collettivo che coinvolge vari strati della società. Anche gli avvocati, che da sempre hanno avuto un ruolo chiave nella difesa dei diritti umani in Iran, sono in prima linea in questa battaglia. Hanno preso il rischio di difendere i diritti fondamentali delle persone, nonostante le pesanti repressioni. Questo ci dimostra che, nonostante le enormi difficoltà, la società sta supportando sempre più questo movimento di resistenza.
L’Iran continua a usare il sistema giudiziario come strumento di repressione. Come valuta la condizione attuale degli avvocati nel suo Paese, che rischiano continuamente persecuzioni e carcere per difendere i diritti umani? Esiste un equilibrio tra il ruolo professionale dell’avvocato e quello di attivista in un contesto così pericoloso?
Questa è una domanda molto importante, poiché gli avvocati in Iran hanno da sempre avuto un ruolo cruciale nella lotta per i diritti umani, e lo hanno fatto con grande determinazione. Negli ultimi quattro decenni, sono stati presenti in prima linea, cercando di plasmare positivamente la società e di difendere i diritti fondamentali delle persone. La generazione di avvocati precedente alla mia, la mia generazione e quella più giovane che sta emergendo oggi sono tutte unite dalla passione e dall’impegno per la giustizia.
È proprio grazie a questo spirito che possiamo dire che l’attività legale in Iran non si limita a una professione, ma si intreccia profondamente con la lotta per la libertà. Un esempio di ciò che affrontano gli avvocati è Mohammad Reza Farhi, che attualmente sta scontando una pena di 5 anni di prigione per aver intentato una causa contro la Guida Suprema, opponendosi al divieto imposto all’importazione dei vaccini contro il coronavirus. Altri avvocati, come Mohammad Najafi, sono stati incarcerati per anni per aver difeso diritti e libertà. Najafi, ad esempio, è in carcere da quasi 8 anni, e di recente ha ricevuto la notifica che la sua licenza di avvocato è stata revocata mentre era in prigione. Queste sono solo alcune delle storie che mostrano come la comunità legale in Iran stia affrontando enormi pressioni.
Nel mio caso, sono ancora condannata a sei anni e mezzo di prigione e posso essere rimandata in carcere in qualsiasi momento. La realtà, dunque, è che il sistema giudiziario in Iran non sta cercando la giustizia. Non solo non applica leggi che sono già problematiche, ma spesso non rispetta nemmeno le stesse leggi che ha scritto. Non c’è equilibrio tra la funzione del sistema giudiziario e la professione legale. Eppure, nonostante tutto questo, la professione legale in Iran è fermamente impegnata a creare giustizia, e gli avvocati continuano a difendere i diritti umani. A fronte di tutto questo, la domanda che ci poniamo è: dobbiamo arrenderci? La risposta è no. Anche nelle società democratiche, alcune persone hanno sempre pagato un prezzo per la giustizia e per la democrazia. In Iran, noi siamo pronti a pagarlo, perché crediamo che non possiamo fermarci. La lotta per i diritti e la libertà è una battaglia che deve essere portata avanti e noi continueremo a lottare per la giustizia, anche se il prezzo è alto.
Quale effetto ha avuto su di lei l’esperienza della prigione e delle dure condanne per le sue attività? Ha mai influenzato la sua lotta? Che impatto ha avuto questa esperienza sugli altri avvocati che sono stati perseguitati?
Penso che chi lotta per la giustizia soffra per l’ingiustizia. La prigione è un dolore, la separazione dalla famiglia è dolorosa. Ma quando qualcuno inizia a lottare, deve scegliere tra due dolori. Uno è vedere le nostre giovani figlie molestate ogni giorno per strada. Vedere che vengono trascinate per terra, umiliate, picchiate, come è successo a Mahsa Amini, e anche recentemente con Armita. O dobbiamo scegliere di parlare e accettare il rischio di essere arrestati. Io ho scelto la seconda opzione.
Suo marito, Reza Khandan, è stato arrestato e condannato per la sua opposizione al velo obbligatorio. Come valuta questa condanna e qual è la sua situazione oggi? Che impatto ha avuto tutto questo sulla sua famiglia e sul suo lavoro di attivista per i diritti umani?
La spilla che indosso oggi, mentre parliamo, su cui c’è scritto chiaramente “Mi oppongo al velo obbligatorio”, è stata creata da Reza, che ora si trova in prigione proprio per averla realizzata. È stato arrestato e portato via per questo motivo. Una delle esperienze più dolorose per chi difende i diritti umani è vedere la propria famiglia presa di mira e purtroppo questo è esattamente quello che è accaduto a noi. Il contesto in cui è avvenuto l’arresto di Reza è importante: il Parlamento iraniano stava per approvare una legge sul velo e la castità, una legge che avrebbe imposto pene molto severe, fino alla pena di morte, per le donne che non si conformano all’obbligo del velo. Io e altre donne ci siamo opposte pubblicamente a questa legge, dichiarando che, se fosse stata approvata, avremmo protestato apertamente.
Il Presidente, dopo aver visto l’enorme opposizione, ha dichiarato che non avrebbe promulgato la legge, e anche il presidente del Parlamento ha fatto un passo indietro. Ma, proprio il giorno in cui la legge sarebbe dovuta entrare in vigore, è arrivata la polizia a casa nostra per arrestare Reza. Lo hanno preso basandosi su una vecchia condanna di sei anni prima, che era stata archiviata, ma che improvvisamente è stata riesumata illegalmente. Da quel momento sono passati più di quattro mesi e lui è ancora in prigione, preso come rappresaglia per la mia opposizione a quella legge. Reza è stato condannato a tre anni e mezzo di prigione per aver creato un simbolo di resistenza contro l’imposizione del velo obbligatorio. Questo è il costo che dobbiamo pagare per la nostra lotta per la libertà e i diritti delle donne. Le nostre famiglie, purtroppo, sono spesso il bersaglio diretto di queste repressioni. Non solo ci privano della nostra libertà, ma colpiscono anche i nostri cari per cercare di spezzare il nostro spirito. Ma noi, nonostante tutto, continuiamo a lottare.
Perché il regime ha così tanta paura delle donne?
Questo atteggiamento nei confronti delle donne, che ha avuto un impatto devastante sulla nostra società, è stato un grave errore fin dall’inizio, fin dalla nascita della Repubblica Islamica. Si può osservare chiaramente anche in alcuni degli slogan usati dal regime, come quello estremamente umiliante che recita: “O copri la testa o vieni picchiata sulla testa”. Questo slogan non è solo una forma di controllo, ma un vero e proprio atto di violenza psicologica, che riflette la profonda misoginia che ha caratterizzato il regime fin da subito. Già nei primi giorni del nuovo sistema, le leggi che avevano in qualche modo tutelato i diritti delle donne sono state annullate, e al loro posto sono state introdotte misure che utilizzano un linguaggio offensivo e denigratorio nei nostri confronti. È evidente che la misoginia non è stata solo una caratteristica del regime, ma un elemento radicato e centrale della rivoluzione che ha portato alla nascita della Repubblica Islamica.
Le motivazioni di questa misoginia meritano una discussione più profonda, ma una cosa è certa: ci sono voluti decenni di lotte per contrastarla. Le donne sono state sempre in prima linea in questa battaglia. Oggi, come nel passato, protestano contro leggi che continuano a controllare i loro corpi, in particolare la legge sul velo obbligatorio. Nonostante la repressione, le donne non si sono mai arrese. Hanno sempre lottato per i loro diritti e per la loro libertà. E ora, sono più convinta che mai che siamo sulla strada giusta, una strada che ci porterà finalmente a una lotta che non solo darà a tutte le donne la libertà che meritano, ma che contribuirà anche a una vera e propria libertà per tutta la società iraniana. Spero davvero che, un giorno, possano esserci le condizioni giuste affinché amici come voi possano venire in Iran, per vedere con i propri occhi il nostro impegno e sostenerci. Questo è il nostro sogno: una società libera, in cui la giustizia e la dignità di tutti, uomini e donne, siano finalmente rispettate. Sono certa che quel giorno arriverà, e quando accadrà, il nostro Paese sarà più libero di quanto non lo sia ora.