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Prosegue il dibattito sull’emendamento del responsabile di Azione Enrico Costa che vieta la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Oggi ne parliamo con il giurista Glauco Giostra.
Professore perché secondo lei l’emendamento Costa non è, dopo il recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza, un nuovo strumento per proteggere l’indagato dalla gogna mediatica?
Gabellare il temporaneo oscuramento dell’ordinanza di custodia cautelare come uno strumento a tutela del diritto dell’imputato a non essere considerato colpevole sino alla sentenza irrevocabile mi sembra una forzatura self-evident. Più importante mi sembra soffermarsi su un altro aspetto. Sta passando un messaggio mistificante per cui da una parte ci sarebbero coloro che, avendo a cuore la dignità delle persone indagate, vogliono oscurare l’ordinanza cautelare; dall’altra, quelli che, insensibili a questa esigenza di tutela della reputazione delle persone, difendono la pubblicabilità di tale provvedimento. Sarebbe più corretto dar conto, in modo meno manicheo, che in entrambe le barricate della polemica quasi sempre si ha a che fare con difensori della dignità degli accusati. Soltanto che alcuni ritengono che lo strumento migliore sia il divieto di pubblicare le motivazioni con cui il giudice ha deciso la restrizione della libertà; altri, tra cui il sottoscritto, che un tale divieto non possa conseguire in alcun modo l’obbiettivo perseguito e che comporti un costo inaccettabile in termini di trasparenza democratica, avendo la collettività diritto di conoscere come viene esercitato in suo nome il più terribile dei poteri. «La luce del sole - soleva ripetere il grande avvocato Louis Brandeis, membro della Corte Suprema Usa - è il miglior disinfettante».
Ma gli stessi promotori dell’emendamento hanno precisato che, ove approvato, si potrebbe comunque dare informazione sull’ordinanza essendo soltanto vietata la pubblicazione “integrale o per estratto del testo”.
Al di là delle intenzioni dei promotori, conterà il significato normativo che verrà assegnato alla locuzione “estratto del testo” una volta innestata nell’art. 114 c.p.p.. Problema molto delicato perché il termine estratto, semanticamente ambiguo, può esprimere due concetti, frazione o sintesi, che nella norma sono già denominati con altre parole: “pubblicazione anche parziale o per riassunto dell’atto”. Ma comunque delle due l’una: o non si potrà dare neppure notizia dell’ordinanza e sarebbe soluzione che ci avvicinerebbe a Turchia, Cina, Russia. Oppure se ne potrà offrire - come auspicano i fautori della riforma - una sintesi giornalistica, ma allora non si comprende perché un riassunto dell’operatore dell’informazione dovrebbe essere meno preoccupante del provvedimento del giudice che attualmente può riversare nell’ordinanza «soltanto i brani essenziali» delle intercettazioni rilevanti, limitando i riferimenti alla colpevolezza «alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti dell’atto».
Chi ha appoggiato l’emendamento Costa sostiene che si tornerà alla normativa ante 2017 e allora nessuno gridava al bavaglio.
Questo è refrain tanto diffuso, quanto giuridicamente infondato. Non si riesce infatti a capire quale sarebbe il fondamento normativo di una tale affermazione. Ne avrebbe avuto uno nel codice Rocco che imponeva il segreto e il divieto di pubblicazione praticamente su tutta la fase istruttoria, ma non credo che i fautori dell’emendamento in questione ne abbiano nostalgia. Nel sistema attuale, anche prima della riforma del 2017, il segreto e il correlativo divieto di pubblicazione modulato su di esso (art.114 c.p.p.) riguardava soltanto gli atti di indagine del pubblico ministero e della polizia giudiziaria: l’ordinanza di custodia cautelare, non essendo né un atto di indagine, né un atto del pm o della pg era già non segreta e pubblicabile.
Lei non crede che comunque non sia sano, anzi eccessivamente osmotico, il rapporto tra procure e stampa e questo emendamento serva a spezzare questo cordone?
In effetti, nel passato prossimo, si è non infrequentemente realizzata una sorta di deprecabile “collusione informativa” tra inquirenti desiderosi di far conoscere i risultati della loro azione e giornalisti interessati a conoscerli in esclusiva o almeno prima della concorrenza. Questo reticolo carsico di reciproche compiacenze ha sversato sui media un’informazione “segnata” in senso colpevolistico. Dopo la riforma del 2017, il fenomeno si è decisamente ridimensionato, ma resta una patologia non accettabile. Condivisibile la diagnosi, giuridicamente impraticabile e terapeuticamente inutile, se non controproducente, la cura che si vorrebbe approntare: la non pubblicabilità del testo del provvedimento renderà molto allettante divulgare indiscrezioni ottenute sottobanco.
Quale sarebbe secondo lei lo strumento giusto atto a bilanciare il diritto all’informazione con quello a non essere sbattuti in prima pagina con un atto di accusa che può essere ribaltato dal Riesame o dalla Cassazione e che coinvolge spesso anche terzi estranei all’indagine?
Francamente non userei l’argomento della precarietà, anche la sentenza di condanna di primo grado può essere ribaltata in appello e Cassazione e a nessuno verrebbe in mente di “oscurarla”. Non ci sono panacee. Di certo non è strada percorribile quella di sopprimere un diritto per scongiurarne l’abuso. Consentiremmo di regolarci così, ad esempio, con l’immunità parlamentare? Auspicabile sarebbe agire a monte e a valle. A monte, rendendo se possibile ancor più stringente il divieto di far riferimento ad elementi non strettamente necessari nel chiedere e nell’autorizzare una misura cautelare. A valle, rendendo meno risibile l’attuale sanzione per la violazione del divieto di pubblicazione e, soprattutto, istituendo una Autorità di garanzia a struttura composita (ad es. giornalisti, magistrati, avvocati) in grado di penalizzare anche con stigmatizzanti sanzioni reputazionali chi abbia indebitamente offeso la dignità di una persona coinvolta in un procedimento penale.