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Ci risiamo: avevamo appena finito di commentare gli obbrobri del “sistema” Palamara, pensando e illudendoci di intravedere una luce in fondo al tunnel, ed ecco invece arrivare una nuova ondata di fango che travolge ancora una volta la nostra magistratura. La dinamica è sempre la stessa: un magistrato confeziona un’inchiesta e questa stessa inchiesta spunta miracolosamente nelle redazioni di alcuni giornali, i quali decidono di pubblicarla o non pubblicarla in base alle relazioni personali con questa o quella procura. Questa brutta storia arriva dopo lo stillicidio quotidiano delle chat di Palamara; dopo le istantanee dell’hotel Champagne e dopo la rivelazione di una guerra tra bande tra le varie correnti di magistrati che lottavano (e forse lottano ancora) per il controllo delle procure. Un tutti contro tutti senza fine e gestito in nome del potere per il potere. È dunque evidente che ci troviamo di fronte a un atteggiamento autodistruttivo che deve essere fermato o quantomeno arginato. Una magistratura in queste condizioni è infatti un pericolo, un pericolo per noi tutti. La crisi, il vero e proprio collasso, e la delegittimazione di uno degli attori principali della nostra giurisdizione mettono in pericolo l'intera giustizia italiana. Per questo, chi assiste a questa guerra deve trovare la forza per fermare questa deriva. Pensiamo alla politica naturalmente. Chi altri, se non la politica, ha infatti il diritto e il dovere di fermare questa resa dei conti e portare questa guerra sporca all’interno di un percorso di riforme? E allora in questo contesto così lacerato ci domandiamo: a che serve una commissione d'inchiesta parlamentare sulla magistratura? Intendiamoci, una commissione parlamentare è sempre legittima. Chi scrive pensa che la politica debba avere il ruolo di guida all’interno di una democrazia. La politica è quel potere legittimato dal voto popolare che deve esercitare un controllo critico sulle altre istituzioni. Magistratura compresa. E conosciamo bene le derive di alcune procure. In questi decenni alcuni magistrati hanno fatto e disfatto governi, hanno mandato a rotoli, spesso con gratuita ferocia, la carriera politica di decine di parlamentari, ministri, governatori, sindaci, semplici consiglieri comunali e semplicissimi cittadini. Spesso sulla base di indizi fragilissimi e attraverso inchieste che si sono sciolte come neve al sole già nel primo grado di giudizio. Ci sono procure che hanno sfruttato con grande spregiudicatezza i media, utilizzando giornali e tv come amplificatori delle loro inchieste. Hanno messo in piazza la vita privata di migliaia di persone senza alcun riguardo e hanno usato la galera preventiva trasformandola in una sorta di strumento di tortura. E hanno fatto tutto questo pensando di essere investiti di una missione di rieducazione etica e morale del nostro paese da realizzare per via giudiziaria. Insomma, di fronte a questa galleria degli orrori la tentazione di “fargliela pagare”, di chiedere il conto e di mettere la magistratura sul banco degli imputati è assai forte. Ma chi immagina una “Norimberga” delle toghe incorrerebbe in un gravissimo errore. Questo impulso dal deciso retrogusto vendicativo va frenato per quel che dicevamo prima: perché la politica ha il primato sul controllo della nostra democrazia e sull’equilibrio dei poteri. E questo primato va usato con grande responsabilità. Alla magistratura non servono processi, serve piuttosto il soccorso di qualcuno che la aiuti a uscire dal buco nero nel quale si è infilata. La politica deve trovare la forza e il coraggio di trasformare questa sciagura in opportunità andando a caccia di soluzioni radicalmente riformiste. Magari iniziando da una riforma radicale del Csm (consigliatissima, al riguardo, la lettura della proposta Vietti-Casini), dalla separazione delle carriere e dalla responsabilità civile dei magistrati. Così facendo raggiungerebbe due risultati: troverebbe la sua credibilità perduta e guiderebbe una riforma davvero radicale della nostra giustizia.