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Scusatemi la franchezza, l’impertinenza, la supponenza o qualsiasi cosa vi possa apparire, con la quale non riesco a riconoscermi in molte delle analisi dei risultati delle tanto attese votazioni italiane per l’elezione del Parlamento europeo, e dei loro possibili riflessi sul governo gialloverde. Che fu formato l’anno scorso, dopo l’avvio della diciottesima legislature, in un clima di sostanziale emergenza, in qualche modo paragonabile a quella del 1976, quando il rinnovo anticipato delle Camere produsse quelli che Aldo Moro chiamò “due vincitori”: la sua Dc e il Pci di Enrico Berlinguer, sprovvisti entrambi dei numeri parlamentari per fare l’uno a meno dell’altro, per quanto si fossero presentati alternativi agli elettori.
Nacque allora il governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti sostenuto prima dall’astensione e poi dal voto di fiducia del Pci all’insegna della “solidarietà nazionale”. L’anno scorso invece nacque un governo di grillini, senza i numeri per fare da soli, e di leghisti, autorizzati all’esperimento dall’alleato nelle urne Silvio Berlusconi per evitare un turno inedito di elezioni anticipate d’estate. Esso era temuto dal Cavaliere non solo e non tanto per gli abituali elettori di centrodestra in vacanza, e perciò destinati a disertare le urne, quanto per il rischio che il sorpasso della Lega su Forza Italia si ripetesse in dimensioni maggiori, e la leadership conquistatasi in quel versante da Matteo Salvini diventasse più forte, non occasionale come il Cavaliere sperava.
Ma Salvini, anziché logorarsi nella improvvisata e anomala coalizione da contratto con i grillini, come forse anche Berlusconi in cuor suo aveva motivo di ritenere, ha continuato a crescere in tutte le elezioni parziali o locali succedutesi a quelle politiche dell’anno scorso. Ciò deve avere spazientito, allarmato e quant’altro il Cavaliere. Che, lungi dall’essere quel dilettante che gli avversari hanno dipinto per anni, e lui stesso perfidamente lascia credere esondando nelle sue performance televisive contro le regole della continenza oppostegli dai conduttori con un misto di rassegnazione e di riguardo, ha impresso nelle ultime battute alla campagna elettorale per le europee una svolta sfuggita incredibilmente a fior di analisti.
In particolare, Berlusconi ha rimesso in discussione, proprio mentre i rapporti fra Salvini e Di Maio nel governo e nella maggioranza peggioravano a vista d’occhio, la leadership leghista del centrodestra prospettando esplicitamente una candidatura a Palazzo Chigi del fidato e fedele Antonio Tajani. Della cui elezione alla presidenza del Parlamento Europeo nel 2017, pur essendo avvenuta grazie ad una maggioranza di centrodestra, con i conservatori al posto dei socialisti accanto ai popolari della cancelliera tedesca Angela Merkel, l’allora eurodeputato Salvini non fu proprio entusiasta. E un po’ di acredine politica fra i due è rimasta. Ora che Salvini - uscito sicuramente vincente dalle elezioni europee, nonostante i tentativi grillini di fermarne l’avanzata sollevando contro il suo partito la vecchia questione morale sullo sfondo delle solite inchieste giudiziariesi è proposto di investire il suo successo per cercare più di rivitalizzare che di far cadere il governo, si è creata una situazione a dir poco paradossale.
A ridurre la capacità negoziale del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno può essere più della resistenza oggettivamente sfibrata di un movimento delle 5 stelle sorpassato dal Pd di Nicola Zingaretti, il timore del leader del Carroccio di mettere nel conto di una rottura con Di Maio il ritorno in un centrodestra di cui dovrebbe riguadagnarsi - chissà a che prezzo- la leadership, nonostante il 34 per cento e più di voti, contro meno del 9 di Forza Italia. E’ un po’ come quando la Dc - deve essersi detto qualche amico di “capitan” Salvini- con molto più del 30 per cento dei voti doveva fare buon viso al cattivo o scomodo gioco di un Giovanni Spadolini o di un Bettino Craxi a Palazzo Chigi.
Curioso, vero? A questo scenario è stato opposto il 40 per cento di cui ormai Salvini disporrebbe con la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, e che gli restituirebbe nel negoziato con i grillini la forza paradossalmente sterilizzatagli da Berlusconi. Ma la legge elettorale per il rinnovo delle Camere non è la stessa per il rinnovo del Parlamento europeo. Quel 40 per cento dovrebbe fare i conti con i collegi uninominali della Camera e del Senato, i negoziati conseguenti nella coalizione, le soglie e altre cose che rendono aleatorie persino le tavole pitagoriche. Vi sembrerà incredibile, ma è così. Nessuno d’altronde si occupa più del pasticcio della legge elettorale prodotta in Italia dalle forbici della Corte Costituzionale e dai rammendi parlamentari.