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Anche se il figlio Marco in una lettera agli azionisti della sua Gedit ne ha appena voluto rivendicare leadership coprendo il 20 per cento del mercato editoriale, la serietà della crisi della Repubblica di carta fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari è rimasta scolpita nello scontro improvviso e durissimo fra Carlo De Benedetti e i suoi discendenti. Che, a cominciare dal primogenito Rodolfo, sono stati accusati dall’anziano ma ancora vitalissimo genitore di scarsa o nessuna passione e competenza nella gestione dell’azienda editoriale a loro ceduta negli anni scorsi. Non è stato il primo, e credo che non sarà neppure l’ultimo scontro tra genitori e figli nel mondo imprenditoriale. E merita - a mio avviso- tutto il rispetto dovuto a simili vicende, senza sguazzare nello sciacallaggio, come purtroppo ho visto fare in questa occasione da qualche giornale interessato a trarne vantaggio per cercare di risalire dalle posizioni attuali, pensando di avere occupato o di potere occupare le posizioni politiche ed editoriali che Repubblica avrebbe lasciato o, peggio ancora, tradito. Non faccio nomi, né di testate né di direttori, per carità professionale, diciamo così.
Ogni giornale che entra in crisi, o l’aggrava, o chiude e scompare dalle edicole, che già diminuiscono per effetto delle difficoltà dell’intero settore editoriale, è una perdita per la libertà d’informazione e di opinione cui tutti dovremmo tenere, a prescindere dalla tutela garantita dalla Costituzione. E che recentemente, per esempio con l’attacco a Radio Radicale, ho visto minacciata persino da un governo, fortunatamente caduto almeno sotto questo profilo. Sarebbe tuttavia un errore liquidare la crisi di Repubblica - come ho avvertito tra le righe della stessa sofferenza, o insofferenza, di Carlo De Benedetti in precedenti sortite televisive, e persino nel documento diffuso dalla redazione del giornale giustamente preoccupata della sua sorte e desiderosa di rassicurazioni- al direttore che ha avuto la sventura, prima ancora della responsabilità, di avere ereditato o di avere mantenuto durante tutta o una parte della sua avventura perdite più o meno consistenti di copie.
Non ho mai avuto il piacere di conoscere, e tanto meno di lavorare, con Mario Calabresi, ma trovo ingeneroso il trattamento riservatogli nel brusco licenziamento da lui stesso raccontato con una franchezza neppure tanto recriminatoria che gli fa onore. La Repubblica, come altre testate analoghe, paga gli effetti di un certo modo di fare e di creare i giornali, e di gestirli conseguentemente. I giornali non possono fare e tanto meno sostituirsi ai partiti senza condannarsi all’effimero o alla instabilità della politica, specie ora che sono cadute, o si ritiene che siano cadute le ideologie, e i partiti proliferano come funghi dopo la pioggia. Eugenio Scalfari - non se ne vorrà se lo ricordo - fondò il suo quotidiano nel 1976 anche o soprattutto per reazione alla nascita, due anni prima, del Giornale fondato da Indro Montanelli contro la deriva di sinistra che egli av- vertì nel Corriere della Sera con il passaggio della direzione da Giovanni Spadolini a Piero Ottone. Ho lavorato a lungo dall’esordio al Giornale, e non da semplice cronista.
So bene, quindi, di che cosa sto scrivendo. Uscimmo per contrastare i progetti d’alleanza politica, e persino d’intese parziali o eccezionali, fra la Dc e il Pci come antipasto del “compromesso storico” teorizzato da Enrico Berlinguer nel 1973 per evitare - egli scrisse- alternative di sinistra alla maniera del Cile, dove il potere finì nelle mani dei generali e nel sangue. In occasione delle campagne elettorali segnalavamo ai lettori i partiti per cui votare e, al loro interno, essendoci le preferenze, i candidati più affidabili. Montanelli ruppe col suo amico di lunga data Ugo La Malfa, dandogli del matto e rifiutandogli la mia testa, che il leader repubblicano aveva chiesto per un articolo in cui avevo raccontato di un suo incontro con alcuni corrispondenti di giornali stranieri da Roma, per avere considerato “inevitabile”, ed anche utile, un momentaneo accordo con i comunisti. Che fu poi realizzato nel 1976 con la formula della “solidarietà nazionale” e l’appoggio dei comunisti ad un governo monocolore democristiano affidato astutamente all’uomo dello scudo crociato forse più lontano dal Pci, che era Giulio Andreotti. E che non si sentì molto a disagio, diciamo così, nel ruolo affidatogli in particolare da Aldo Moro, il presidente della Dc che sembrava destinato a diventare due anni dopo capo dello Stato, alla scadenza del mandato di Giovanni Leone. E vi sarebbe sicuramente riuscito se non fosse stato nel frattempo sequestrato, fra il sangue della sua scorta sgominata in via Fani il 16 marzo 1978, e infine ucciso pure lui, dopo 55 giorni di drammatica prigionia.
Fu proprio nel 1976, alla vigilia o in vista della stagione della “solidarietà nazionale”, che Scalfari fece uscire la sua Repubblica, sostenendo la linea opposta a quella del Giornale, e rischiando la chiusura, fra il dispiacere - ve lo assicuro - di Montanelli, sino a quando non intervenne a salvarlo come editore proprio Carlo De Benedetti. Che dopo molti anni avrebbe avuto il cattivo gusto di rinfacciare a Scalfari la “pacchettata” di soldi versatigli per diventare appunto il suo editore.
Nello scontro avuto adesso con i figli, lasciandosi intervistare da Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, l’ormai ex editore deciso a riprendersi in qualche modo la sua creatura per evitare che i figli la vendano, secondo lui, a chi ne farebbe un cattivo uso, ha orgogliosamente detto che «tante cose sono avvenute su Repubblica, e tante sono avvenute a causa di Repubblica». E’ vero. Non è possibile dargli torto. Decisivo, per esempio, ancor più del Giornale di Montanelli, dove ad un certo punto dovetti andarmene in ferie per non condividerne la linea, fu l’apporto di Repubblica alla “fermezza” imposta al governo e alla Dc dal Pci di Berlinguer, ma anche dal Pri di La Malfa, alla gestione del sequestro Moro. Altrettanto decisivo, e infine condizionante anche per il Giornale di Montanelli, dal quale proprio per questo ce ne andammo nel 1983 Enzo Bettiza e io, fu l’anticraxismo di Repubblica. Che sin dall’arrivo del segretario socialista a Palazzo Chigi ne anticipò o auspicò la crisi un giorno sì e l’altro pure, sino a quando il segretario della Dc Ciriaco De Mita non si decise ad accontentarla sfrattandolo nel 1987 per andare alle elezioni anticipate.
I giornali- partito o di Palazzo, come preferite, hanno finito così per svuotare e infine uccidere, assorbendone lettori e personale, specie per quanto riguardava Repubblica, dotata di maggiori mezzi ed anche - perché negarlo? - di maggiore fantasia e capacità gestionale, i giornali di partito che facevano il loro onesto e trasparente lavoro: dall’Avanti all’Unità, dal Popolo alla Giustizia, dalla Voce Repubblicana a Liberazione. Ma ciò, con l’aiuto della maggiore enfasi e penetrazione elettronica e quant’altro, era destinato, come si è visto proprio con la clamorosa ammissione di De Benedetti nello scontro con i figli, a non portare fortuna ai giornali. E neppure ai partiti, visto come sono ridotti anche loro, ancor peggio dei giornali che spesso cercano di pilotarli. Per cui può accadere, per esempio, a Davide Casaleggio - in curiosa coincidenza con le voci o notizie che gli attribuiscono resistenze o scetticismo sull’alleanza col Pd- di ritrovarsi oggetto di un’inchiesta giornalistica da “fuoco amico”, condotta da un giornale non certo ostile ai grillini, sui reali o potenziali “conflitti d’interesse” derivanti da consulenze per “centinaia di migliaia di euro” fornite a “lobby del tabacco, delle scommesse e dei trasporti” usualmente o geneticamente “contestati” dal Movimento delle 5 Stelle.