Le regole, tanto nella vita reale quanto sulle piattaforme social, sono la base per evitare che si creino zone opache, con la possibilità che alcuni soggetti o gruppi di persone si muovano indisturbati e commettano illeciti. Parte da questa riflessione l’avvocato e professore Salvatore Sica, ordinario di Diritto privato all’Università degli Studi di Salerno, nel commentare l’arresto in Francia del fondatore di Telegram, Pavel Durov.

Professor Sica, Telegram è davvero una prateria in cui agiscono, senza limiti, anche criminali di ogni genere?

Il tema è comprendere il reale funzionamento di ciascuna piattaforma social. Per quanto è dato sapere dall’indagine in corso in Francia, il livello di controllo su contenuti veicolati e su modalità di accesso della piattaforma Telegram è, evidentemente, più basso rispetto alle altre piattaforme, che hanno invece alzato la soglia di attenzione rispetto ai cosiddetti temi sensibili.

L’arresto di Pavel Durov fa emergere anche il tema della sicurezza dei nostri dati, che si incrociano con questioni geopolitiche?

Il mondo ormai è contraddistinto dalla circolazione indiscriminata di una serie dati. Ognuno di noi dovrebbe rendersi conto che l’acquisizione del nostro patrimonio di dati è anche più banale di quanto si possa immaginare. Ad esempio, se si va in un albergo in un Paese piuttosto che in un altro, il collegamento alla rete wifi della nostra stanza potrebbe favorire la deviazione automatica del nostro traffico per l’acquisizione dei nostri dati. In altre parole, il tema della protezione dei dati è l’argomento centrale per la tutela personale, ma poi i dati dei singoli aggregati diventano dati di controllo sociale più esteso, da considerarsi come una parte dello scacchiere geopolitico. I principali soggetti interessati ad acquisire dati sono gli Stati e le loro strutture di intelligence e di sicurezza.

Le Monde sostiene che il caso Telegram è un importante banco di prova giuridico e politico per l’Unione europea, diventata il campione della regolamentazione democratica delle piattaforme digitali. Il quotidiano francese auspica che l’Europa rafforzi la vigilanza nel pieno rispetto dello Stato di diritto. Cosa ne pensa?

Concordo con le riflessioni proposte da Le Monde. Non siamo più nella stagione in cui ci si interrogava se la rete potesse essere o meno oggetto di una regolamentazione. Un contesto democratico avanzato, e l’Europa, va ribadito, è la frontiera più progredita sotto questo profilo, non può che dare una risposta equilibrata, con una serie di valutazioni da fare caso per caso. Se partiamo dalla direttiva del 1995 e arriviamo all’attuale disciplina, al Regolamento europeo sulla protezione dei dati, la regola è nella tutela del singolo a cui si riferiscono i dati, il cosiddetto interessato, con le eccezioni di prevalenza dell’interesse pubblico, che sono, ad esempio, la sicurezza nazionale, la tutela della salute collettiva, la prevenzione del terrorismo. Come sempre, quando ci occupiamo di questi argomenti, la parola chiave diventa balance.

Non è pensabile che possa esserci una disciplina dettagliata, ma è necessaria una valutazione case by case delle situazioni in ballo. La retorica della libertà di manifestazione del pensiero, e della prevalenza dell’interesse del singolo ad ogni costo, mi sembra che non abbia più ragione di esistere. La rete e le piattaforme social in particolare sono un pezzo, anzi, forse oggi sono il pezzo più importante della vita dei singoli e degli Stati. Se decidessimo di non avere una regolamentazione nelle società in cui viviamo, significherebbe volere uno stato di anarchia, e questo non è accettabile. Ci sono già le regole a livello europeo. e i gestori delle piattaforme social vi devono sottostare. Non è tollerabile che le piattaforme siano veicolo del compimento di illeciti.

Telegram ha detto che rispetta le leggi Ue, incluso il Digital Services Act: è il primo tentativo di difesa dalle gravi accuse mosse dall’autorità giudiziaria francese.

Occorrerebbe conoscere i dettagli dell’indagine francese, ma questo al momento è precluso a chiunque. Se davvero l’operato di Telegram fosse conforme al Digital Services Act, io non credo che possa aversi un’indagine come quella di cui si sta parlando. Evidentemente vi sono delle zone d’ombra, nel traffico che circola su Telegram. Però, starei attento anche alla posizione contraria, cioè dare per scontato che un giudice possa indiscriminatamente sindacare il contenuto dell’attività di una piattaforma. Aggiungerei a tal riguardo un’altra riflessione.

Quale?

Dobbiamo abituarci all’equiparazione tra vita virtuale e vita reale. Nella vita reale l’intervento del giudice è sottoposto alle prescrizioni dello Stato di diritto. Analogamente, nel caso Telegram si tratta di verificare se il giudice abbia rispettato le garanzie democratiche, nel senso complessivo dell’ordinamento giuridico e del singolo nell’attuare il proprio intervento e nell’eseguire i propri provvedimenti. Fa bene, quindi, Le Monde a richiamare lo Stato di diritto. Affidarsi alla nozione di Stato di diritto può essere l’ancoraggio forte per prevenire l’idea di una rete senza regole e per evitare che l’introduzione delle regole sia uno strumento di controllo e censura dei contenuti che circolano nella rete.