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Per Ennio Amodio, avvocato penalista, professore emerito di procedura penale all'Università di Milano e autore, tra l'altro, di A furor di popolo (Donzelli editore), la risposta alle aspettative delle vittime di giustizia è semplice: «Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo». Dietro questa frase c'è tutta la cultura illuminista e garantista di giudice con la bilancia in mano.
Professore, alla decisione della Cassazione di prescrivere alcuni reati, diversi parenti delle vittime della strage di Viareggio hanno urlato: "la nostra battaglia la continuiamo ugualmente, perché una battaglia di civiltà, di giustizia, quella vera". In un altro caso la madre di una vittima, per una condanna lieve all'omicida di suo figlio, gridò al giudici "Vergognatevi". Con quale sentimento dobbiamo affrontare queste rivendicazioni?
Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo. Non si può pensare che per il solo fatto di essere vicini alla persona che ha subìto il reato si abbia la legittimazione a costruire un processo personale, di famiglia che si sostituisce, in ragione del dolore che si è provato, alla giustizia degli uomini in toga che applicano la legge. Nella storia giuridica si è avuto il passaggio da uno spirito vendicativo ad uno che è rappresentato dal giudice con la bilancia in mano, che interpreta anche il volere dei parenti delle vittime di avere una risposta. Ma se la giustizia in toga finisce per sposare interamente le attese delle vittime viene completamente travisato il significato e pure la funzione del processo che è incentrata nella nostra storia del mondo occidentale sull'equilibrio e sulla ragionevolezza anche delle pene.
Secondo lei la funzione del processo penale - di garanzia per l'imputato - è compatibile con il ruolo sempre più preponderante che la vittima del reato ha assunto nel nostro sistema processualpenalistico? C'è chi ritiene infatti che la presenza del danneggiato nel processo, come protagonista e parte, può alterare la rigorosa parità tra accusa e difesa che si deve realizzare innanzi a un giudice terzo e imparziale. È giusta questa analisi?
Non solo è giusta, ma questa esigenza di equilibrio viene incarnata nel processo del Common Law con l'assenza in dibattimento di un rappresentante della persona offesa o di quella che chiede il risarcimento del danno. Ciò viene giustificato dai giuristi inglesi e americani con il fatto che se ci fosse anche la presenza di questo soggetto si altererebbe l'equilibrio perché nel processo l'imputato avrebbe due controparti: il pm che rappresenta la collettività e un rappresentante della persona offesa. Ha dunque un fondamento la tesi secondo cui oggi come oggi nel processo penale la presenza della parte civile costituisce un aspetto incompatibile con il rito che abbiamo adottato nel 1988, ossia quello accusatorio. Persino il Presidente della Commissione redigente, il professor Gian Domenico Pisapia, diceva sempre che il Parlamento ha voluto confermare la parte civile in questo nuovo processo ma la presenza della parte civile è incompatibile con il ruolo garantistico che deve avere il processo accusatorio.
A questo giornale Giorgio Spangher ha detto: "tutto il processo viene sempre governato dall’imputazione del pm", intendendo che il peso assegnato alle conclusioni del pubblico ministero orienta pesantemente le aspettative di giustizia delle vittime dei reati. È d'accordo con questo pensiero?
Sì, è così. Esiste una aspettativa che è popolare e che è riflessa in una massima che ho imparato da un giurista americano secondo cui la collettività, le persone che non fanno parte dell'apparato della giustizia pensano sempre che una accusa abbia un qualche fondamento, in quanto la popular mind, cioè la credenza popolare va nel senso che se è stata sollevata una accusa allora qualche cosa ci deve essere. Ed ecco che quindi nasce la spinta populista a ritenere che laddove il giudice nella sua ricerca, ovviamente mirata e regolata dal sistema delle prove, ritenga che l'imputato sia innocente tradisce quella spinta iniziale e quella posizione di partenza che è contrassegnata dall'accusa del pm. Ma questo è un modo di riscrivere e di concepire il processo che la nostra cultura occidentale ha superato con l'Il-luminismo, quando si è affermato il principio che le pene ci devono essere ma devono essere equilibrate, che c'è una presunzione di innocenza, che la prova sta al centro del processo penale e che le spinte emotive non possono superare la razionalità dell'accertamento. Il populismo finisce per derogare da questo impianto razionale e passare ad un sistema che è quello emotivo che pone a fondamento dell'edificio della procedura la risposta vendicativa.
Ritiene che i giudici siano immuni dalla condizione emotiva che la vittima può esercitare sulla correttezza dei processi decisionali?
Nella maggioranza dei casi direi di sì. Tuttavia ci sono dei fatti che sono talmente gravi che evidentemente e naturalmente suscitano delle impressioni nel giudice. E quindi a volte i giudici, non dico che sono fuorviati, ma sono influenzati dall'impatto emotivo che un certo reato ha sulla società.
A suo parere il processo penale può ancora raggiungere i suoi scopi se la comunità in cui si celebra non ne condivide le regole ed i valori fondanti?
Ma certo, è sempre stato così. Oggi viviamo in un'epoca in cui sotto la spinta del populismo la bandiera delle vittime sventola in alto, sostenuta anche dalla stampa, e si finisce per cercare una risposta contro il garantismo e contro gli ideali di una giustizia con la bilancia in mano. Credo che nel nostro sistema nonostante queste spinte la gran parte della nostra magistratura è ancora capace di consegnare alla collettività uno strumento come il processo penale in grado di compiere un accertamento equilibrato e di dare una sentenza giusta.
Nel suo libro "A furor di popolo" lei scrive: "è una giustizia senza bilancia, figlia di umori e paure, che si muove sotto la spinta della collera e di una insaziabile sete di vendetta". Quali sono gli anticorpi a questo fenomeno?
Una operazione di tipo culturale e politico: non bastano le norme di legge perché la spinta populista di certi partiti ha i suoi effetti. Ma c'è anche una parte che desidera che il Paese venga guidato per quanto attiene alla giustizia con la ragionevolezza e non con la vendetta. Del resto è stato sempre così storicamente: ad un processo come quello dell'ancient regime, dove le persone erano presunti colpevoli, è subentrato poi il pensiero dell'Illuminismo, a cui principi si ispirano i nostri codici. Ora ritorna una forte spinta emotiva ma se pensiamo ai principi della Costituzione e a quelli europei ci rendiamo conto che essi promuovono una giustizia che deve muoversi in modo equilibrato per colpire sì la criminalità ma senza gli eccessi dovuti alla paura, all'ansia della collettività con le sue richieste di pene gravissime e carcere per tutti.