«Siamo già immersi in una barbarie pre-giuridica, senza esserne consapevoli». A dirlo è il professore Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca, che fotografa la trasformazione in atto della giustizia penale italiana: sempre più influenzata dall’emotività collettiva, dalla pressione mediatica e da una retorica vittimocentrica che rischia di piegare principi costituzionali fondamentali come la presunzione d’innocenza.

Nel caso di Filippo Turetta, l’esclusione dell’aggravante della crudeltà è stata letta da molti come una forma di “difesa” dell’imputato. È un problema di comunicazione della giustizia o di aspettative sbagliate?

Nel processo mediatico, o peggio ancora in quello social-mediatico, i concetti giuridici sono approssimativi e capita che si confonda la crudeltà, intesa come connotato intrinseco della scelta di uccidere un essere umano, con l’aggravante della crudeltà, che costituisce invece un quid pluris rispetto alla condotta omicidiaria. L’aggravante attiene alle particolari modalità esecutive dell’omicidio che devono eccedere la normalità causale al fine di determinare sofferenze aggiuntive alla persona offesa. È chiaro che questa aggravante esprime un atteggiamento interiore riprovevole che si aggiunge alla determinazione omicidiaria.

Nel caso specifico, i giudici hanno ritenuto che le pur numerose coltellate inferte da Turetta alla povera Giulia Cecchettin fossero frutto della inesperienza dell’omicida piuttosto che di una particolare crudeltà. Può essere una realtà disturbante per il lettore inesperto, ma il diritto penale è una materia complessa e anche la ricorrenza di un’aggravante può richiedere accertamenti tanto approfonditi quanto discutibili. Ad esempio, bisognerebbe distinguere con certezza fra i colpi inferti in vita e quelli post mortem che non possono evidentemente procurare sofferenze alla vittima. In una parola, complessità che mal si concilia con una comunicazione semplificata e demagogico-populista.


⁠Perché, secondo lei, molte persone percepiscono alcune sentenze come “ingiuste”, anche quando viene inflitta la pena massima? Cosa ci dice questo scarto tra diritto e sentimento collettivo?

La nostra società è sempre più vendicativa e percepisce come ingiusta ogni condanna che si discosti dal concetto stereotipato di punizione esemplare. Siamo giunti al parossismo di contestare anche l’ergastolo quando vengano contestualmente escluse, come nel caso Turetta, aggravanti che non potrebbero comunque influire sulla pena già applicata nella sua massima estensione perpetua.

È un pericoloso climax ascendente che si registra proprio in una fase storica in cui il numero degli ergastoli è aumentato esponenzialmente per effetto dell’esclusione del giudizio abbreviato che, prima della riforma del 2019, serviva da importante elemento di mitigazione della pena perpetua, trasformandola in quella massima temporanea o comunque escludendo l’isolamento diurno per l’ergastolo aggravato previsto dalla codice penale quando la stessa persona è condannata per aver commesso più reati, di cui almeno uno punito con l’ergastolo. Continuando così, non mi stupirei se venisse riaperto il dibattito sulla pena di morte e sulla tortura come strumento di ricerca della confessione.

È accettabile, in uno Stato di diritto, una deriva vittimocentrica della giustizia, in cui il dolore della vittima diventa il principale criterio di giudizio? Quali rischi comporta?

Ovviamente non è ammissibile e non è costituzionalmente compatibile con la presunzione d’innocenza, ma la retorica della vittima sta portando i suoi frutti, forse non proprio quelli sperati da chi ha voluto piegare alla vittimologia la normazione penale, tanto sostanziale quanto processuale. Il processo, in particolare, si è trasformato in un rituale di degradazione dell’imputato in funzione catartica per la vittima. Il rischio è la regressione allo stato pre-giuridico della barbarie, nella quale siamo già immersi senza esserne pienamente consapevoli, anzi, nella convinzione che una nuova scala di valori ci salverà da ogni pericolo o ingiustizia. Errori macroscopici di prospettiva che finiremo per pagare a caro prezzo.


Esiste uno spazio in cui il diritto può – o deve – confrontarsi con la dimensione emotiva della società?

Il diritto etico, il diritto penale emozionale sono alla base dell’esperimento, per ora incompiuto, della giustizia riparativa. Si tratta di un altro grave errore di prospettiva. Il diritto penale deve rimanere laico, non deve sovrapporsi alla morale privata o all’etica pubblica. Ricordiamoci che quando ciò storicamente è accaduto abbiamo assistito all’ascesa dei peggiori regimi: Il Codice penale nazista prevedeva che il reato è costituito da “ogni fatto contrario al sano sentimento del popolo”. Non dovremmo mai dimenticare i rischi determinati dalla commistione fra diritto e morale.


Cosa succede quando l’opinione pubblica chiede giustizia, ma in realtà pretende vendetta? Come si difende l’autonomia della giustizia in questi casi?

La giustizia è uno dei concetti più alti e complessi, un principio che ha un’evidente valenza antropologica, dovendo garantire la coesistenza intersoggettiva, ma che nelle democrazie moderne non può essere un dato puramente demoscopico, dovendo radicarsi saldamente sul concetto di ordinamento giuridico e dei conseguenti diritti. Questo per dire che la giustizia non deve rispondere alle aspirazioni dei singoli o a quelle collettive, ma va rapportata alla rispondenza alle norme di diritto positivo. Il miglior antidoto rimane il rispetto dell’ordinamento giuridico, delle sue forme e dei suoi principi, contro ogni tentazione di intraprendere imprevedibili scorciatoie.

La giustizia penale dovrebbe limitarsi a punire il colpevole o può anche “nominare” il contesto culturale di un crimine, come nel caso della violenza di genere?

Altro quesito complesso: il crimine non è un fenomeno, ma un fatto, possibilmente ben determinato, ritenuto antisociale e deviante al punto da richiedere l’applicazione della pena. Il contesto, sociale o culturale che sia, può incidere su alcuni aspetti, ma non sull’idea di fondo, ossia che si debbano sanzionare solo condotte tassativamente selezionate dalla legge penale. Il problema della violenza di genere è l’approccio criminologico che si fa sempre più strada nel processo penale, come dimostrano anche le scelte dei reiterati codici rossi legislativi.

Per esemplificare, si vorrebbe che il giudice fondasse la sua decisione su criteri statistico frequentisti piuttosto che sul rigoroso accertamento del fatto: dato che spesso gli uomini commettono violenze sulle donne - aspetto criminologico -, allora non vi è motivo per dubitare che la vittima abbia denunciato il vero e che l’imputato sia colpevole, in sostanza che il processo sia del tutto inutile, o meglio, che serva solo quale strumento di punizione anticipata. È un ragionamento tanto inquietante quanto diffuso.


Qual è il ruolo dell’informazione in questo equilibrio fragile tra giustizia e opinione pubblica? I media devono solo raccontare o anche aiutare a comprendere?

I media avrebbero un ruolo fondamentale se non fossero, con le dovute eccezioni, in cerca di consensi demagogici tanto quanto la politica. Il sensazionalismo e il populismo giustizialista pagano molto di più di un rigoroso garantismo che aiuti la formazione dell’opinione pubblica, piuttosto che assecondarla. Credo sia una lunga battaglia culturale, difficile, ma non impossibile.