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È senso comune che la gelosia sia un moto dell’animo diverso dalla invidia, tuttavia in alcune lingue le differenze si fanno sfumate e, del resto, i greci e i latini confusero spesso i due termini.
Etimologicamente la gelosia deriva dal greco zélos che significa zelo, ammirazione, vivo desiderio, invidia e gelosia.
Gli zelòti costituirono una setta di irriducibili sostenitori della legge e della indipendenza ebraica. 960 zeloti si diedero la morte in occasione della caduta della fortezza di Masada nel 74 d. C..
Quindi la gelosia indicherebbe più propriamente il desiderio di conservare il possesso di un bene che ci appartiene e, al contempo l’avversione contro coloro che sospettiamo pretendano lo stesso bene.
La psicologia spicciola ci suggerisce numerosi esempi di gelosia partendo dal fatto che è raro provare gelosia per un lontano parente, mentre è comune provarla per un fratello che si avverte, a torto o a ragione, aver ricevuto più cure e attenzioni dai genitori.
Allo stesso modo possiamo essere gelosi delle nostre bellezze naturali e temere che i turisti ce le deturpino soprattutto se costoro sono francesi, tedeschi o slavi, mentre non abbiamo lo stesso timore verso, faccio per dire, gli uruguayani, gli eschimesi o i samoani.
Voglio dire che la gelosia è spesso una questione fraterna e di vicinanza.
Gli zii materni di mia moglie si contendevano l’attenzione della madre, la mitica nonna Argia.
In occasione della festa per un suo compleanno Carletto, il maggiore, al momento del brindisi si esibì nella interpretazione della famosa canzone “Mamma son tanto felice” che aveva preparato da tempo.
Attaccò con il lungo recitativo: “Mamma son tanto felice Perché ritorno da te.
La mia canzone ti dice ch’è il più bel giorno per me.
Mamma son tanto felice Viver lontano perché?”
A questo punto fece una pausa, raccolse il fiato e per poter erompere nel possente: “Mamma, solo per te la mia canzone vola…” Ma Piero, fratello minore e rinomato trombettista nella banda del paese, lo precedette nell’assolo.
Pare che si sia sfiorata la rissa.
Una accezione particolare merita il vocabolo regionale gelosia indicante le persiane che si soleva tenere chiuse per nascondere le donne dagli sguardi indiscreti.
Ovviamente questo termine è inconcepibile nel Nord Europa dove il concetto di privacy è tale per cui non è pensabile che ci si debba difendere dagli sguardi altrui. Ad esempio ad Amsterdam non ci sono praticamente tende alle finestre delle case private e gli abitanti circolano in totale deshabillé senza minimamente curarsi degli sguardi dei passanti che, in effetti, non ci fanno il minimo caso. L’invidia, parente dell’odio, è lo stato d’animo per cui ci si duole di un bene altrui.
L’etimologia latina in- videre avrebbe due interpretazioni. Da una parte indicherebbe “guardare di mal occhio” con tutte le implicazioni magiche connesse a ciò ( ad esempio il classico malocchio). D’altra parte “in” verrebbe letto come “non”, cioè non vedere, stornare la vista dalla felicità altrui.
In questo senso in slavo si esprime il concetto di odio con il termine niena- vidiri, letteralmente “non poter vedere”.
Dante nel XIII canto del Purgatorio condanna gli invidiosi a stare appoggiati, immobili, lungo la ripa della seconda cornice con le ciglia cucite con del fil di ferro come gli sparvieri non ancora addestrati. Il Poeta avrebbe voluto indicare che l’invidia serra gli occhi dell’intelletto a chi ne è soggiogato.
Vi è anche una accezione positiva della invidia che indicherebbe, in questo caso, il dolore per non poter attingere alla perfezione di un proprio modello e il desiderio di giungervi. Questo genere di invidia/ ammirazione ci può spingere, talora, alla emulazione dei nostri modelli.
Personalmente penso di averla provata nei confronti dei miei fratelli maggiori dei quali ammiravo i successi scolastici che credevo per me inattingibili.
Si conservava in casa un grosso quaderno, di quelli, per intendersi, con la copertina nera e i bordi delle pagine rossi sul quale nostra madre aveva trascritto i più bei temi dei miei fratelli. Ogni tanto, la sera dopo cena, i più belli venivano letti a tavola suscitando una generale ammirazione. Mi sembrava impossibile raggiungere la concinnitas di Beppe o l’ingegnosa espressività di Marco.
Anche mia sorella ed io stesso avevamo ottimi voti e riscuotevamo dei successi, vincendo regolarmente premi e borse di studio, ma per noi non giunse mai l’ambito onore di essere registrati nel quadernone rosso- nero grazie alla meticolosa calligrafia della mamma. Probabilmente, con quattro figli da accudire, si era stancata.
Nel tentativo di emulare i miei fratelli mi spinsi consapevolmente a cercare di imitarne, almeno, la calligrafia, come se questo esercizio potesse giovarmi nella ricerca del successo scolastico.
Del resto ricordo alcune annotazioni della mia adorata maestra, la signora Lilia Lingua Valsecchi, che scriveva in calce ad alcuni miei temi: “Pensierini, buoni. Calligrafia, bestione!”
Nel corso dei miei studi liceali, poi, ricorrevo spesso alla consultazione dei manuali che loro avevano studiato anni prima, sempre con il chiaro scopo di emularli.
Quando decidemmo di propiziare l’arrivo del nostro primo figlio fummo accompagnati in questa attesa da un folto gruppo di amici che erano anch’essi in procinto di compiere la stessa scelta.
Fra questi, tuttavia, una coppia espresse chiaramente, anche se in modo garbato, la propria disapprovazione.
Per loro una coppia perfetta doveva bastare a se stessa e non “distrarsi” con le inevitabili beghe della genitorialità.
Un mese prima della nascita del nostro bambino ci invitarono a cena cosa, peraltro, molto frequente all’epoca e naturalmente reciproca.
Ci prepararono un menù insolitamente raffinato, servito su piatti preziosi di fine porcellana, e con posate d’argento e calici di cristallo.
Mia moglie ed io ne fummo piacevolmente sorpresi anche perché non sapevamo che quella era una cena di addio.
Dopo questa cena le telefonate di questi amici cessarono e garbatamente rifiutarono tutti i nostri inviti accampando le scuse più varie. Naturalmente non parteciparono per nulla alla nostra gioia per la nascita di nostro figlio Nicola. La cosa ancor più singolare era che io ero stato da loro scelto come medico di fiducia e, quindi, negli anni successivi venni da loro consultato più volte per questioni mediche. Tuttavia in occasione di questi incontri “professionali” non fecero il minimo cenno al nostro bambino, né alla nostra lunga consuetudine amicale fatta di interessi, viaggi e passioni comuni.
Comprendemmo, non senza dolore, che una forte gelosia aveva impedito ai nostri amici non solo di gioire con noi, ma anche di continuare a frequentarci, quasi fossimo diventati dei reprobi.
Tahar Ben Jalloun nel suo libro L’amicizia ( Einaudi, 1995) esprime qualcosa di analogo quando racconta che alcuni scrittori e poeti marocchini troncarono i rapporti con lui quando cominciò ad avere un meritato successo con le sue opere pubblicate dapprima in Francia e, poi, in tutto il mondo.
Nei detti popolari si afferma spesso che “i figli portano ricchezza” e credo di confermarlo anche attraverso la mia esperienza: non si tratta, ovviamente, di ricchezza materiale in senso stretto quanto piuttosto di ricchezza emotiva e di allegria.
La mia famiglia di origine con noi quattro figli era vista come una famiglia felice e, sotto sotto, invidiata nella cerchia dei parenti.
Infatti quando tutti e quattro ci allontanammo da Lecco, la nostra città natale per seguire i nostri studi e le nostre carriere i nostri genitori ci confessarono, con un po’ di tristezza, che qualche parente e conoscente avesse commentato con loro questo fatto con una punta di sadica soddisfazione con frasi del tipo.
“Avete visto che succede ad avere figli che vanno bene negli studi e che si laureano?”
psichiatra
SPESSO VIENE ACCOMUNATA ALL’INVIDIA E HA ANCHE UN’ACCEZIONE POSITIVA DI AMMIRAZIONE CHE SPINGE A EMULARE MODELLI POSITIVI