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Se il piatto della vendetta si serve freddo, come dice un vecchio proverbio, quello preparato dal presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky per il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano è stato servito freddissimo, direi congelato, ai lettori di Repubblica.
Che si sono visti riproporre gli attacchi del costituzionalista all’ormai ex capo dello Stato nove anni dopo i fatti, risalendo al 2012 l’attacco del professore a “Re Giorgio” - così lo chiamavano un po’ tutti i simpatizzanti, anche della stampa estera- per avere fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro la potentissima Procura della Repubblica di Palermo.
Nelle cui intercettazioni per le indagini sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi erano finite anche le utenze del Quirinale, compresa quella del capo dello Stato chiamato al telefono, fra gli altri, da Nicola Mancino. Che non era un omonimo, ma proprio il ministro democristiano dell’interno all’epoca della vicenda finita sotto le lenti degli inquirenti, diventato poi presidente del Senato, quindi supplente del capo dello Stato in caso di impedimento, e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura con lo stesso Napolitano presidente. La Procura palermitana della Repubblica si era messa in testa di poter disporre la distruzione delle intercettazioni dell’inintercettabile capo dello Stato adottando una procedura che avrebbe potuto consentirne paradossalmente la diffusione facendo prima ascoltare il contenuto alle parti processuali.
L’allora magistrato di punta dell’accusa, il non dimenticato Antonio Ingroia, già scherzava pubblicamente sulla sua memoria di ferro e sulla licenza che avrebbe potuto concedersi come romanziere scrivendone a tempo debito. C’era ben poco da ridere, in verità, ma molti risero lo stesso, fuori e dentro gli uffici giudiziari, vi lascio immaginare con quanta soddisfazione sul Colle, dove ancora si piangeva la morte per infarto del consigliere giuridico di Napolitano, il povero Loris D’Ambrosio, finito nel tritacarne delle polemiche e dei sospetti su chissà quali e quante pressioni sui magistrati inquirenti.
Secondo Zagrebelsky, anche a costo di lasciare Ingroia libero di divertirsi come possibile romanziere, Napolitano avrebbe dovuto risparmiare alla Corte Costituzionale il sospetto, fondato o non che fosse, di dover decidere per forza a suo favore, a tutela della sua figura istituzionale.
Eugenio Scalfari, non più direttore di Repubblica ma pur sempre fondatore e custode, garante e quant’altro della sua anima, amico di entrambi i contendenti, non esitò un istante a schierarsi con Napolitano.
E il presidente emerito della Consulta, come altri celebri collaboratori, per esempio Barbara Spinelli, entrarono nei “coni d’ombra” dove Scalfari metteva ogni tanto i dissidenti Ora che in un cono d’ombra ci si è messo di persona lo stesso Scalfari per i 97 anni felicemente compiuti in aprile, per i temi sempre più alti e distaccati di riflessione, celebrato ancora in vita dalle figlie con un documentario davvero toccante anche per chi ha avuto tante occasioni di non condividere le scelte di un giornalista pur eccezionale come lui, Zagrebelsky è tornato alla carica contro Napolitano, non nominandolo esplicitamente ma facendolo chiaramente riconoscere nel passaggio di un articolo sui “tarli” del Quirinale in cui si contesta “Il velo di silenzio” steso dalla Corte nel 2012 sui “contatti informali” dell’allora presidente della Repubblica. “Contatti che possono contenere interventi inconfessabili e incontrollabili”, ha aggiunto Zagrebelsky severamente al presente, come per dire che altri potrebbero fare ancora e di più dopo Napolitano, pur mettendo Sergio Mattarella al riparo da ogni dubbio o paura su una specie di monumento alla “fortuna” erettogli in una specie di inciso.
Ma è stato - ripeto- solo un inciso, perché il quadro complessivo del Quirinale emerso dall’articolo di Zagrebelsky si conclude con la diagnosi non di “una supplenza” determinatasi alla Presidenza della Repubblica per limiti, carenze ed errori degli attori politici ma “di una vera e propria modifica tacita della Costituzione, di cui ora avvertiamo la portata e i rischi”.
In particolare, il celebre costituzionalista, che all’Università chiamavano “Re Gustavo” per celebrarne il prestigio, ha contestato ai presidenti succedutisi al Quirinale prima di Mattarella “moniti sui diversi argomenti di stretta competenza politica, pressioni su decisioni che spettano al Parlamento, pretese condizionanti le formule di governo, uso di poteri fuori delle condizioni previste per il loro esercizio… interdetti e veti o sponsorizzazioni su persone invise o gradite”, sino a “creare reti di relazioni che facilmente possono trasformarsi in diffusi “giri di potere” nel governo, nelle Camere e nel sottogoverno”. “Onde si è parlato in certe circostanze, senza accorgersi dell’ossimoro, di “partiti del Presidente”, ha impietosamente aggiunto Gustavo Zagrebelsky.
Altro che i “tarli della Repubblica” - ripetousati nel titolo di prima pagina con cui l’articolo è stato pubblicato giovedì, procurando all’autore l’ira funesta di Giuliano Ferrara, che sul Foglio gli ha dato del “costituzionalista più trombone, pedante e loffio che ci sia”.