PHOTO
Troppe lodi al modello cinese. Capita infatti sempre più spesso di leggere, su giornali e social network italiani, articoli in cui vengono espresse lodi sperticate alla Cina e all’efficacia della sua strategia nella lotta al coronavirus. Chi parla di “virus cinese” viene criticato, spesso con durezza, e invitato a riflettere sugli aiuti che la Repubblica Popolare ci starebbe generosamente elargendo. Si tratta senza dubbio di un enorme successo propagandistico. E’ una formidabile inversione dei ruoli. Un Paese dal quale è partito un contagio che ha infettato il mondo intero, e la cui leadership politica ha nascosto l’inizio dell’epidemia, per di più punendo i medici che avevano cercato di diffondere subito l’informazione, si atteggia ora a “salvatore” del mondo stesso, invitandoci a copiare i suoi modelli di organizzazione politica e sociale. Ma quali sono questi modelli che dovremmo acriticamente ammirare? In primo luogo l’esistenza di un unico partito, senza possibilità di scelta da parte dei cittadini elettori, che rende la struttura statale salda e compatta, evitando contestazioni e dissensi dannosi per la coesione sociale. Sullo sfondo resta il problema di capire da quale fonte tale partito unico tragga la propria legittimazione a governare da solo. Dal punto di vista di Pechino, la legittimazione dipende dalla Lunga Marcia e dalla vittoria dei comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Chiang Kai- shek nell’ormai lontanissimo 1949. Preistoria, se adottiamo un punto di vista occidentale. Per il Partito Comunista Cinese, invece, si tratta di ieri, tant’è vero che, a partire da quella data remota, non ha ceduto nemmeno un millimetro di potere. E ne va fiero, ritenendosi autorizzato a governare per una sorta di diritto permanente e non soggetto a critiche. In secondo luogo dovremmo pure riconoscere che la repressione violenta del dissenso è più che legittima, giacché giova alla coesione sociale di cui sopra garantendo, per l’appunto, la stabilità perpetua delle istituzioni e dei loro rappresentanti che possono, senza timori, prescindere dal consenso popolare. Ne consegue che i campi di concentramento chiamati, con un eufemismo tipicamente orientale, “campi di rieducazione”, sono anch’essi legittimi e rappresentano uno strumento necessario al servizio del partito unico. Si parla anche con frequenza di un soft power cinese, in grado di fare concorrenza al celebre soft power americano. Del secondo sappiamo tutto, nei suoi aspetti piacevoli e meno. Di quello cinese abbiamo un esempio nella rete degli “Istituti Confucio”. Meritevoli quando si occupano di diffondere i tratti caratteristici di una cultura plurimillenaria. Preoccupanti quando invece cercano di impedire la diffusione di tesi non in linea con le direttive del partito unico, eterno e immodificabile. Pare sia convinzione di molti che l’attuale pandemia abbia rafforzato – e anche molto – il soft power di Pechino, ma è difficile comprendere le motivazioni di chi ragiona in questo modo. L’unica spiegazione plausibile è a mio avviso la seguente. Le restrizioni imposte dalla pandemia hanno fatto riemergere da noi antiche pulsioni antiliberali che non sono mai scomparse. Poiché l’adozione del marxismo- leninismo come filosofia ufficiale di Stato – come avviene in Cina – sarebbe nel nostro contesto giudicata anacronistica, si ricorre a un mix composto da anti- scienza, ecologismo estremo e amore per l’autoritarismo. Occorre allora chiedersi se è davvero questo che vogliamo. Dovrebbero chiederselo molti giornalisti e anche parecchi politici con incarichi governativi. Qualcuno, forse reputandosi un novello Henry Kissinger, ha parlato di realpolitik nei rapporti con la Cina. Scordando che essa consiglia di adottare posizioni pragmatiche quando si ha a che fare con un avversario. Non impone affatto, invece, di rinunciare alle nostre idee per adottare le sue. Nell’attuale confusione vale la pena di ribadirlo con forza.