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I fatti che stanno accadendo in Afghanistan, con il ritiro delle forze armate straniere e il ritorno al potere dei talebani, hanno oscurato totalmente un’altra crisi, qui alle porte del nostro Paese: quella della Tunisia. Invece conviene tornare a parlarne per più ragioni.
Una è appunto la vicinanza e il filo diretto fra ciò che accade in quel Paese e i riverberi che ha qui da noi, soprattutto in tema di immigrazione.
La seconda è il legame che negli ultimi dieci anni, dalla rivoluzione dei gelsomini nel 2011, sempre si è tessuto fra ciò che accadeva là e il nostro modo di riguardare quegli accadimenti. La rivoluzione di allora è stata l’unica vincente fra quelle che si sono avute in tutto il mondo arabo, e ciò non può non starci a cuore. In particolare per gli avvocati italiani l’interesse è stato fortissimo: da quando, appunto nel 2011, vedemmo i colleghi tunisini scendere in piazza per rovesciare il regime di Ben Alì; poi durante la fase di ricostruzione costituzionale del paese; fino alla gioia nel vedere gli avvocati di laggiù insigniti del Premio Nobel per la pace, assieme al cosiddetto Quartetto per il Dialogo Nazionale, che evitò nel 2013 lo scoppio di una guerra civile.
Infine, preoccupava e preoccupa la profondissima crisi economica, sociale e occupazionale di un Paese flagellato da un altissimo tasso di corruzione, soprattutto dei politici, verticalmente aggravata dalla quarta ondata della pandemia: un Paese piegato che sembra avere difficoltà insormontabili a rimettersi in piedi.
In questo contesto, il 25 luglio scorso, il Presidente della Repubblica Kais Saied ( un avvocato, costituzionalista: una persona indiscutibilmente perbene, non un Al Sisi qualunque) ha proclamato lo stato di emergenza e ha “congelato” l’attività parlamentare per trenta giorni, utilizzando l’art. 80 della Costituzione del 2014, che così recita nella sua prima parte: “In caso di pericolo imminente che minaccia le istituzioni della nazione, la sicurezza e l’indipendenza del Paese e il funzionamento regolare dei poteri pubblici, il Presidente della Repubblica può prendere le misure necessarie per questa situazione eccezionale, dopo aver consultato il Capo del Governo e il Presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo e avere informato il Presidente della Corte Costituzionale”.
Al Presidente non è dato sciogliere il Parlamento monocamerale, ma può appunto “congelarne” o sospenderne l’attività. Anche se la mancata istituzione della Corte Costituzionale, per non essersi mai i partiti messi d’accordo sulla nomina dei giudici, costituisce un grave vulnus per una democrazia compiuta: ciò fa sì che dalla scena manchi un attore fondamentale.
I trenta giorni sono scaduti e Saied, come previsto, li ha rinnovati. Ma per fare cosa? Transitare alla stesura di una riforma costituzionale in senso presidenzialista, magari con soglie di accesso elettorale che, almeno in parte, evitino l’attuale frammentazione della composizione parlamentare? Non è dato sapere. E abbiamo motivo di essere preoccupati, anche se molti degli analisti ( prima fra tutti la professoressa Tania Groppi, profonda conoscitrice del sistema costituzionale e giuridico della Tunisia) hanno salutato positivamente la mossa di Saied: così non si poteva più andare avanti.
C’è di che essere preoccupati nel vedere cancellato quel delicato equilibrio che aveva tenuto assieme nel processo costituzionale sia i laici che i fratelli mussulmani di Ennadha, consentendo l’affermazione di molti diritti per le donne e vietando il ricorso alla sharia. Era, questo, un raggiungimento molto importante, che rischia di essere travolto. È ben vero che nelle elezioni del 2019 Ennadha ha avuto risultati molto inferiori a quelli raggiunti nel 2014, ma in uno scenario di profonda crisi sociale e politica, il risorgere di tentazioni islamiste, magari appoggiate dalla Turchia di Erdogan, è dietro l’angolo.
Saied gode indiscutibilmente di un grande consenso popolare: le manifestazioni contro il governo che avevano imperversato fino al 25 luglio si sono sedate come per incanto. Ma il possibile abbandono di quella capacità di trovare un punto di equilibrio e farne il fondamento del Paese, ci preoccupa molto.