La nuova sentenza della Consulta che conferma e spiega le regole di accesso al suicidio assistito si presta al dibattito: siamo di fronte a una svolta o a una posizione “conservativa”? Per Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto Costituzionale alla Sapienza di Roma, il punto è un altro: per la terza volta in sei anni la Corte richiama il legislatore alla responsabilità, garantendo per quanto possibile la facoltà del singolo di decidere della propria vita. «Il protagonismo della Corte Costituzionale è frutto di una crisi generale del sistema – dice al Dubbio -. La decisione su come regolare il fine vita spetta al Parlamento entro i parametri posti dalla Consulta, ma questo non decide nulla».

Dunque, professore, lei come legge la nuova pronuncia della Consulta?

A me sembra che ci sia un forte richiamo all’effettività della tutela e alla esigibilità di un diritto che la Corte Costituzionale, già da tempo, nel 2019, aveva stabilito. È, ahimè, una reazione necessaria a una situazione di perdurante paralisi. Lo dice la stessa Corte nella parte finale: la paralisi è dovuta essenzialmente a due fattori, l’inerzia del legislatore e i troppi ostacoli o silenzi che si sono frapposti da parte del servizio sanitario nazionale. Ma potrei aggiungere un ulteriore fattore.

Quale?

Siamo di fronte alla terza sentenza che si pone in assoluta continuità con le precedenti. La prima, l’ordinanza del 2018, con la quale la Corte ha dato un anno al Parlamento per legiferare. Poi c’è la sentenza obbligata del 2019, la 242 (sul caso Cappato/Dj Fabo, ndr). E infine quest’ultima, con la quale la Consulta è trascinata, dall’inerzia del legislatore, su un terreno che non le dovrebbe competere, quello della definizione dei casi concreti. Come nelle due precedenti decisioni, c’è un forte responsabilità del legislatore silente.

Questa sentenza è definita tecnicamente una “interpretativa di rigetto”. Cosa vuol dire?

In realtà è una “interpretativa di rigetto anomala”, di cui bisogna enfatizzare proprio l’anomalia. Perché le sentenze interpretative, sia quelle di rigetto e ancor più quelle di accoglimento, interpretano una norma che risulta oscura. Qui la Corte è costretta a interpretare se stessa, e cioè una sua precedente sentenza, confermando i quattro requisiti stabiliti con la 242 del 2019. Li ribadisce, e non ne aggiunge di ulteriori. Ma ne specifica uno, quello legato ai trattamenti di sostegno vitale, attraverso una interpretazione estensiva, che però non si pone come un nuovo criterio.

Un requisito che la Corte decide di non superare, ma di “allargare”.

La Corte è chiamata a operare un bilanciamento necessario tra il diritto alla scelta autonoma sul proprio corpo e il dovere di tutelare la vita. Che, in fondo, è lo stesso tema sollevato quando ha stabilito l’inammissibilità dei referendum sul suicidio assistito. Bisogna evitare, argomenta la Consulta, il rischio di una «”pressione sociale indiretta” che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi».

E dunque prevale il diritto all’autodeterminazione, alla luce del giudicato costituzionale?

A me sembra che, con tutte le cautele del caso, la Corte riaffermi per la terza volta il diritto di scelta sul proprio fine vita, che è il principio fondamentale. Quello che lega tutto, è la Corte a dirlo, è il rispetto della dignità della persona, che però deve essere di volta in volta rapportato alla situazione della persona in concreto. Voglio dire che la dignità della persona deve portare al rispetto della scelta, formata autonomamente, di porre fine alla propria vita, ma anche del dovere di tutelare la vita delle persone più deboli e vulnerabili. È questo il principio che dovrebbe indirizzare il legislatore a regolare simili situazioni. Un principio costituzionale “laico”. Che prevale su quelli che inducono a tutelare la vita “a prescindere”, qualunque sia la condizione data. In caso il limite è data dal fatto che la Corte, che è un giudice, non può sostituirsi al legislatore, e deve allora assumere le proprie decisioni in base ai singoli casi e non in via generale e astratta. Questo, forse, è il vero problema.

E ciò vale soprattutto per quanto riguarda il requisito del sostegno vitale. Che per la Corte non va inteso esclusivamente come macchinario. Ma anche come procedure quali “l’evacuazione manuale” o “l’inserimento di cateteri” da parte di familiari e caregivers.

È interessante la ricostruzione che la Corte fa di questa categoria, ma ancora una volta non mi stupirei se domani intervenisse un’ulteriore condizione imprevista, perché la casistica è infinita. Lo sforzo della Corte, ripeto, è di dare effettività a un diritto di fronte all’inerzia degli altri soggetti: il legislatore e il servizio sanitario nazionale. La cui indecisione è intollerabile in condizioni drammatiche e complesse. Poi c'è un terzo soggetto: il giudice, al quale spetta la decisione caso per caso.

Con il rischio di creare disparità sul territorio nazionale? Come accade anche per il riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali.

Lo ripeto ancora: occorre una legge, nel rispetto della sentenza della Corte. La quale scandisce ancora con forza l’auspicio che il legislatore e il servizio sanitario intervengano prontamente per assicurare la concreta attuazione dei principi fissati. Ferma restando, dice la Consulta, la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina.

Ogni nuova proposta di legge, dunque, dovrà partire da questi assunti della Corte.

Non c’è dubbio.

C’è chi sostiene che la Corte abbia “invaso” il campo della politica, mostrando eccessivo protagonismo nella sfera “sociale”. Cosa ne pensa?

Il protagonismo evidente della Corte Costituzionale è frutto di una crisi generale del sistema costituzionale. Un atteggiamento che risale nel tempo e di cui la stessa Corte Costituzionale si lamenta. Proprio perché un giudice costituzionale, essa ha l’ultima parola e non può sottrarsi al giudizio. Da sempre, in alcuni casi con sentenze storiche assai importanti, ha dovuto sistemare quel che il legislatore aveva mal scritto, non scritto o scritto contro la Costituzione. È successo persino quando l’irrazionalità ha riguardato norme di rango costituzionale: la riforma del Titolo V è il caso più noto. Da ultimo tramite una tipologia di sentenze che non avevamo mai avuto prima, quelle di rinvio della decisione a una data certa. Come quella sul fine vita, ma anche in materia di ergastolo ostativo, sul quale alla fine non è intervenuto il Parlamento, bensì il governo. Sintomo di una vera e propria patologia, di fronte alla quale dovremmo chiederci se non sia il caso di rafforzare la capacità di far leggi del Parlamento. Ne va della salvaguardia della nostra democrazia.