La sentenza della Cassazione numero 19069 dell’ 11 luglio scorso si è soffermata sul tema dell’affidamento del figlio della coppia separata che abbia meno di 3 anni e sul pernottamento con il padre. La pronuncia dei giudici di Piazza Cavour, come sottolinea l’avvocata Daniela Giraudo, consigliera Cnf e coordinatrice della commissione Diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni, merita alcune riflessioni, perché è stata presentata in maniera incompleta e poco approfondita.

«Gli organi di informazione – dice al Dubbio la consigliera Giraudo – hanno rilanciato la notizia con una notevole enfasi, sottolineando un dato: ai padri deve essere consentito il pernottamento con i propri figli solo dopo i tre anni. Ma non è propriamente il contenuto della pronunzia della Suprema Corte. Che in realtà, rigetta il ricorso ritenendo tutti i motivi inammissibili in quanto, sostanzialmente, solleciterebbero un riesame del merito della controversia, riesame proposto in modo improprio mediante l’apparente denuncia di vizi di violazione di legge motivazionale. Vero è, tuttavia, che la sentenza contiene una sorta di obiter dictum in cui viene fatto rinvio all’operato del giudice dell’impugnazione, rinvio che si può prestare a essere interpretato come adesione al principio, anche se di fatto non è espressamente così».

La vicenda nasce nel Tribunale di Macerata. «Dalla lettura della sentenza – commenta Giraudo – emerge che in primo grado il Tribunale di Macerata aveva previsto tempi di permanenza paritetici per un bambino in tenera età, di 16 mesi, e ancora allattato al seno. Peraltro, in una situazione in cui le residenze dei genitori non risultavano vicine, tant’è che il padre ha lamentato la circostanza che, a seguito della riforma in appello, i tempi di permanenza con il bambino si sarebbero risolti in permanenze nell’autovettura. Insomma, se ne inferisce di una situazione con caratteristiche assai peculiari da cui si vorrebbe far conseguire un principio generale, ovvero che il pernottamento col padre non dovrebbe essere concesso prima del compimento dei tre anni. L’assunto non è condivisibile, sia perché non è la Cassazione ad affermarlo, sia perché, nell’ambito che ci occupa, le generalizzazioni appaiono davvero poco percorribili. Dalla sentenza, va ribadito, non discende alcun principio generale».

Un tema significativo è quello della “bigenitorialità paritetica”, con le implicazioni che ne derivano per garantire degli equilibri a salvaguardia dei figli. «Si tratta – spiega ancora la consigliera Cnf – di un diritto dei figli, che non dovrebbero mai entrare nel conflitto tra i propri genitori, ma dovrebbero trovare una gestione il più possibile contigua a quanto è avvenuto in costanza della convivenza della famiglia. Il piano genitoriale previsto dalla riforma Cartabia, e di cui all’articolo 473 bis del Codice di procedura civile, ultimo comma, ha questo precipuo compito: fotografare lo stato di fatto e proporre soluzioni che non siano laceranti per i bambini e i ragazzini, che già devono fare i conti con la disgregazione del loro mondo di affetti.

Il Consiglio nazionale forense ha ritenuto di suggerire un modello di piano genitoriale che contenga tutte e solo le informazioni necessarie per il giudice al fine di comprendere le modalità seguite sino al momento della separazione da uno dei due genitori, e cercare una sintesi tra le proposte dei medesimi per il futuro prossimo dei loro figli. Se un papà è presente e assiduo nella vita di un figlio, se si occupa fattivamente del suo accudimento, non si vede perché debba subire la mutilazione di un rapporto. Tuttavia, bigenitorialità non vuol dire divisione salomonica di tempi e figli, vuol dire partecipare alla gestione e alla crescita, proseguire un cammino di sostegno e appoggio, possibilmente condiviso tra i genitori. È la prosecuzione di una presenza che esiste, non l’imposizione ragionieristica di orari quasi ferroviari per imporre una parità mai praticata prima, e questo, in particolar modo, quando i bambini sono particolarmente piccoli. Non voglio ragionare di chi pensa che la divisione del tempo a metà sia una soluzione accattivante, soprattutto per i suoi risvolti economici».

A questo punto l’avvocata Giraudo sgombra il campo dai dubbi. «Erroneamente – conclude – qualcuno pensa che, se dividiamo i tempi del figlio o dei figli al 50%, la conseguenza sia il mantenimento diretto, quindi la possibilità di evitare alcun versamento di un concorso al mantenimento. Non è così, in quanto in primis raramente le situazioni economiche di riferimento dei genitori sono del tutto sovrapponibili, ma, soprattutto, perché la logica è la riproduzione di uno schema di accudimento, presenza e accompagnamento alla crescita di un figlio che sia coerente con le sue esigenze, tempi di permanenza equivalenti che non sempre sono fattibili e non sempre costituiscono una quotidianità tale da porsi come realizzazione del best interest of the child che dovrebbe guidare tutti in questo genere di determinazioni» .