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A farmi conoscere Roberto Gervaso, che sino ad allora avevo soltanto letto soprattutto per i libri sulla storia d’Italia scritti con Indro Montanelli, fu la madre dello stesso Montanelli, l’indimenticabile Maddalena. Che gli voleva bene come a un secondo figlio. Dopo avermelo presentato mi volle incontrare di nuovo per chiedermi di tentare col figlio, di cui conosceva il rapporto stretto che si era creato fra di noi al Giornale fondato poco più di un anno prima, ciò che non era riuscito a lei: convincerlo ad assumere Roberto. Che moriva dalla voglia di seguirlo in quell’avventura con i fuoriusciti dal Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, dei quali peraltro io non facevo parte, provenendo dal Giornale d’Italia.
Ma non riuscii nella missione. E ciò non perché a Montanelli non piacesse il modo di scrivere di Gervaso, che d’altronde egli aveva praticamente portato al successo associandolo come autore dei suoi libri di divulgazione storica. Semplicemente non gradiva che Gervaso accreditasse in qualche modo, secondo lui, la voce che fosse un suo figlio segreto, tanto gli assomigliava nel fisico e nello stile. Quando, nel 1981, scoppiò quello che fu subito definito “lo scandalo della P2”- con la scoperta e la diffusione prima a singhiozzo e poi integrale, almeno nelle apparenze, delle liste della loggia massonica segreta di Licio Gelli, che comprendeva Gervaso non solo come affiliato ma anche come arruolatore- Montanelli liquidò la faccenda come una mezza pagliacciata. E, nel tentativo di rafforzare questa sua rappresentazione, presentò tutti quelli che ne furono coinvolti come gente sprovveduta più o meno in grembiulino,, a dispetto dei gradi che portavano da militari, delle funzioni che rivestivano nell’alta burocrazia o nella politica, e del successo nelle loro professioni di giornalisti, medici e altro ancora.
Lo stesso trattamento toccò a Gervaso, che ne rimase molto amareggiato. E mi toccò ancora una volta, su sua diretta richiesta questa volta, di parlarne con Montanelli. Che però era già in difficoltà di suo perché con Gelli si era una volta incontrato - tanto segretamente che non se n’era mai saputo nullaper chiedergli una mano nell’apertura di una linea di credito al Giornale presso il Banco Ambrosiano, prima che Berlusconi ne diventasse editore risolvendo i problemi provocati dalla rottura dei rapporti con Eugenio Cefis.
Grazie al quale il Giornale era potuto uscire. Pertanto solo a sentir parlare della delusione di Gervaso e del modo di rimediarvi Montanelli mi mandò quasi a quel paese. Gervaso, pur rimanendone un adoratore, si sentì quella volta davvero tradito, come un figlio dal padre. E mi toccò consolarlo in più di un incontro, finendo spesso anche per scherzarci sopra. Era accaduto che Roberto, di formazione orgogliosamente liberale, era stato colpito dall’anticomunismo professatogli da Gelli e, in un periodo in cui molti sembravano rassegnati a cedere al Pci, avesse involontariamente inguaiato un bel po’ di amici, fra i quali il direttore del Gr2 della Rai Gustavo Selva e Silvio Berlusconi. I quali, o convinti a iscriversi da lui o a loro insaputa, si trovarono in quelle maledette liste, con quali complicazioni vi lascio immaginare, visto che la P2 divenne sui giornali, prima ancora o diversamente dai tribunali, o nella commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dalla ex ministra democristiana Tina Anselmi, la sentina della Repubblica: un’accolita di affaristi e carrieristi nella migliore delle ipotesi, di golpisti o aspiranti tali nella peggiore.
Francamente, solo l’idea di un Gervaso golpista mi faceva ridere conoscendone le abitudini e le debolezze. Ad attirarlo, però più nelle parole che nei fatti, bastandogli ed avanzandogli la sua Vittoria, erano solo le donne, le farmacie per le malattie che immaginava di avere, la macchina da scrivere con cui sfornava pezzi e libri in quantità quasi industriale e le letture, particolarmente quelle di Seneca. Che egli consigliava a tutti gli amici, come ha appena testimoniato sul Messaggero anche il buon Enrico Vanzina.
Non appena ebbi l’occasione di dimostrargli la considerazione e la simpatia che avevo per lui, non cambiando né l’una né l’altra nel frastuono della P2, lo feci ben volentieri. Lo associai, per esempio, ai commenti politici nella trasmissione televisiva dell’allora Fininvest “Parlamento in”, facendogli fare “il contrappunto” al mio “punto”. E, arrivato alla direzione del Giorno, nel 1989, gli affidai una rubrica nella pagina della cultura procurandomi però una giornata di sciopero della redazione, peraltro proclamato proprio la sera in cui ero a cena nel Varesotto col presidente dell’Eni Franco Reviglio, che era il mio editore. Pur di togliermi dall’imbarazzo, sapendo che ero pronto a dimettermi se fosse continuato il braccio di ferro col comitato di redazione, Gervaso affidò alle agenzie una lettera di rinuncia alla collaborazione. «Così avrebbe fatto Seneca», mi spiegò per telefono esprimendomi tutta la solidarietà “umana e professionale” per dover dirigere quella redazione, che certamente avevo solo ereditato. E che aveva scambiato i papillon di Roberto per armi improprie. Poi - ma troppo tardi ormai per convincerlo a ripensarci, e forse neppure abbastanza per far cambiare idea al comitato di redazione- il ministro in persona delle Partecipazioni Statali, il democristiano Carlo Fracanzani, definito “il conte rosso” nel suo collegio elettorale veneto, rispose alle interrogazioni parlamentari provocate dallo sciopero al Giorno riconoscendo, bontà sua, il diritto di Gervaso di collaborare ad un giornale di proprietà pubblica.
L’ultima passione politica che ricordi di Roberto fu più passiva che attiva. Dei suoi aforismi, raccolti in articoli e libri sempre di grande successo, s’invaghì negli anni del primo centrodestra al governo Gianfranco Fini. Ciò aggravò in qualche modo il contenzioso con Berlusconi, che considerava Roberto un uomo suo. Ne aveva frequentato la casa molto prima di entrare in politica e di assumerlo nelle sue televisioni, arrivando anche lui col fiatone alle sue cene, come Giulio Andreotti, Antonio Bisaglia, Renato Altissimo e tanti altri.
La casa romana di Gervaso, a pochi passi da Piazza del Popolo, era all’ultimo piano di un palazzo maledettamente privo di ascensore. E in una strada intitolata, malgrado il suo ostentato laicismo, a Gesù e Maria: cosa invece che Andreotti considerava provvidenziale anche per l’amico.