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Canzio
Siamo a una svolta? Può darsi. Le coincidenze ci sono. Intanto, la fine di un’epoca alla Procura di Milano, consumata dalle liti fra i protagonisti di quella Mani pulite che inaugura la guerra dei trent’anni sulla giustizia. Poi una guardasigilli che ha il senso della Costituzione. Una maggioranza finalmente sbilanciata sulle garanzie dopo anni di infatuazioni populiste. E una magistratura forse indebolita, e quindi vulnerabile, ma anche cosciente di una necessaria ricostruzione. Ne parliamo con una figura forse unica nell’ordine giudiziario: Gianni Canzio, presidente emerito della Cassazione. Fra i pochissimi magistrati che abbiano saputo rovesciare il riflesso pavloviano dell’irrigidimento corporativo. E sicuramente fra i non molti, anche oltre il fronte della giurisdizione, che negli ultimi anni abbiano saputo guardare lontano.
Presidente Canzio, qualcosa è cambiato davvero? Nelle scelte recenti della politica, e nel suo linguaggio, intravede la fine del conflitto sulla giustizia?
Il confronto esasperato, nei toni e nei contenuti, che nell’ultimo ventennio ha visto schierati su fronti contrapposti garantisti e giustizialisti ha lasciato macerie difficili da rimuovere in breve tempo. A mio avviso, il pendolo continuerà verosimilmente ad oscillare a seconda delle convenienze dettate dai riflessi di singoli episodi o da specifiche occasioni di rilievo mediatico. Tuttavia, a me sembra che il drammatico scenario disegnato dall’emergenza pandemica abbia reso evidente, tra l’altro, l’esigenza di guardare al futuro in termini di radicale ricostruzione organizzativa della giurisdizione, secondo un modello di efficienza e qualità. Nella consapevolezza, da parte sia della politica che della magistratura, che il protrarsi oltre ogni limite della crisi di effettività e autorevolezza della giurisdizione, almeno in parte prodotta anche dalle forme aggressive di quel confronto, rischia di risolversi in una crisi di fiducia dei cittadini non solo nella giustizia ma anche sulla tenuta complessiva del sistema democratico.
Il cambiamento passa per il dialogo, ma anche per le riforme. La direzione tenuta in questi mesi è giusta?
Occorre chiedersi perché gli interventi sulla giustizia previsti dal Pnrr prendono l’avvio dal dato inconfutabile della irragionevole durata del processo italiano, che presenta tempi di definizione di molto superiori alla media europea e al quale s’intende apprestare urgenti rimedi. Non credo che si tratti solo di adesione a una pressante richiesta dell’Unione europea dettata da ragioni connesse a un ordinato sviluppo dell’economia e del mercato. Seppure con grave ritardo si è preso atto che l’età postmoderna ha reso oltremodo complicato il rapporto fra il fattore temporale e la funzione di giustizia. I ritmi della giurisdizione esigono scansioni adeguate alla ricostruzione probatoria dei fatti, all’analisi delle questioni, alla scelta della soluzione corretta e alla spiegazione delle ragioni della decisione. La mentalità e l’agire dell’uomo postmoderno sono, viceversa, orientati intorno al “presente continuo” e al “tutto accade ora”, pretendendo, anche in virtù dell’inarrestabile progresso scientifico e tecnologico – si pensi agli approdi applicativi dell’IA! – un cambio di passo nella rapidità, trasparenza e comprensibilità dei provvedimenti giudiziari.
Quindi la modernità, rispetto alla riduzione dei tempi, ha le proprie buone ragioni?
La verità è che l’eccessiva durata dei giudizi reca un serio pregiudizio sia alle garanzie delle persone coinvolte – indagato, imputato e vittima – sia all’interesse dell’ordinamento all’efficace accertamento e alla persecuzione dei reati. Il modello Cartabia intende dunque fronteggiare con determinazione il problema creato dalle gravi ricadute mediatiche dei tempi lunghi e talora della non uniformità delle decisioni giudiziarie, in termini di irrazionale privilegio accordato all’ipotesi solo provvisoriamente formulata dall’accusa, alle risultanze delle indagini preliminari, alla privazione della libertà personale e alla “gogna” dell’indagato, rispetto all’accertamento dei fatti nel giudizio e agli esiti decisori di quest’ultimo. Una frattura del paradigma della tradizione giuridica occidentale e una deriva, questa, dei valori anche etici del giusto processo, che ha caratterizzato numerose vicende anche di rilievo storico dell’ultimo ventennio.
Il “processo mediatico”, insomma, è anche figlio dei tempi lunghi.
Ed è sembrato pertanto necessario procedere all’adozione di una serie di misure dirette, oltre che a ridurre l’ipertrofia della giustizia penale e a semplificarne le procedure, a riportare in equilibrio i rapporti (poteri-doveri-responsabilità) fra il Pubblico Ministero e il Giudice, sia nelle indagini preliminari con la previsione delle cosiddette finestre di giurisdizione (sulla durata, sulla stasi e sulla discovery degli atti d’indagine, sulle iscrizioni, sulla chiarezza dell’imputazione), sia nella fase di analisi e filtro delle accuse che si prospettino effettivamente meritevoli di verifica dibattimentale solo se e in quanto assistite da una qualificata prognosi di condanna dell’imputato. Il che dà ragione della quasi unanime volontà riformatrice, espressa di recente da Camera dei deputati e Senato, di intervenire sul regolamento dei tempi della complessa macchina della giustizia, secondo più agili e virtuose pratiche operative dei suoi protagonisti e nel rispetto delle garanzie difensive.
Lei parla di riequilibrio nei poteri e nelle responsabilità fra pm e giudice. Ma la loro coesistenza in uno stesso ordine è davvero sostenibile?
Vorrei ribadire, anche se è implicito nel mio ragionamento, il giudizio negativo che ho espresso in più occasioni circa il disegno legislativo di separazione delle carriere dei magistrati di pubblico ministero e di giudice. Il progetto, oltre a destrutturare larga parte del modello costituzionale sull’ordinamento della magistratura, potrebbe a mio avviso determinare, per una paradossale eterogenesi dei fini, l’effetto di una spiccata autoreferenzialità del potere d’inchiesta come baricentro del rito, anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica, e perciò di sostanziale indifferenza della pubblica accusa rispetto al reale accertamento della verità dei fatti all’esito del giudizio: fonte, a ben vedere, del prevalere di logiche corporative e di un rinnovato squilibrio di poteri-doveri nei rapporti fra pubblico ministero e giudice nel processo. Con il lineare corollario, beninteso, che l’opera riformatrice debba comportare un ormai indifferibile rinnovamento metodologico dei saperi, della professionalità e della deontologia di coloro che sono destinati ad esercitare i differenti “mestieri” di attore nel processo.
Dopo le norme sulla procedura, sono ora in gioco quelle sulla comunicazione giudiziaria. Possono contribuire a portare anche nell’opinione pubblica quella nuova consapevolezza di cui lei parlava?
Strettamente legato alle riflessioni fin qui svolte appare il tema del rafforzamento della presunzione d’innocenza dell’imputato, di cui allo Schema di decreto legislativo di adeguamento alla direttiva (Ue) 2016/343, che è stato sottoposto dal Governo al parere del Parlamento il 6 agosto 2021. A me sembra chiara la stretta coerenza delle relative prescrizioni di matrice europea con lo spirito liberale che permea il complessivo disegno riformatore del processo penale. Si riconosce cioè che l’eventuale divario fra il tempo delle indagini preliminari, condotte sulla base di quella che è pur sempre una ipotesi accusatoria, e le ordinate cadenze della verifica dei fatti e delle prove nel contraddittorio fra le parti nel giudizio non può mai risolversi in una lesione, soprattutto di tipo mediatico, delle garanzie e del rispetto del diritto dell’imputato a non essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva. Sicché si stabilisce che non sono consentite dichiarazioni delle autorità pubbliche o di polizia sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale, conferenze stampa e comunicati dell’organo dell’accusa relativi alle indagini in corso, contenuti di decisioni diverse da quelle sulla colpevolezza che, nelle informazioni offerte ai media, presentino l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata, fatto salvo il diritto a tutela della libertà di stampa e dei media. La Corte Edu avverte che neppure la rilevanza pubblica del caso può azzerare la tutela della vita privata degli individui e che, nell’ipotesi d’illegittima pubblicazione di informazioni, sussiste un preciso obbligo dello Stato di adottare misure per prevenirne il rischio e di condurre efficaci investigazioni per rimediare alla violazione di siffatti doveri.
Forse la portata delle indicazioni europee, in questi termini, non era ancora stata compresa.
La sterilizzazione o almeno la mitigazione dei deprecabili episodi di illegittima diffusione di dati lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona, con la puntuale repressione di eventuali violazioni della relativa garanzia, potrebbe – a mio avviso – contribuire, seppure in tempi non brevi, a un più responsabile e critico approccio sia dei media che dell’opinione pubblica alle gravi distorsioni causate dal fenomeno del cosiddetto populismo giudiziario.
Uno snodo decisivo sarà la riforma del Csm. C’è il rischio però che gran parte della dialettica si consumi sul sistema per eleggere i togati.
Quella che in altre occasioni ho definito “la stagione delle riforme” annovera anche il progetto governativo di riforma del Csm, la cui bozza è stata elaborata dalla Commissione Luciani e che sarà presto portato all’esame del Parlamento. Mi limito a svolgere qualche osservazione di merito, che nasce dall’esperienza vissuta di componente, nel tempo, dei vari organi di governo autonomo della magistratura, dicendo fin d’ora che condivido la radicale esclusione di ogni ipotesi, pur temperata, di sorteggio per l’elezione dei componenti togati: una scelta, questa, che sarebbe non solo lesiva della lettera e dello spirito della norma costituzionale ma verrebbe letta come ingiustamente punitiva e degradante per una istituzione di rilievo costituzionale. La complessità organizzativa della macchina della giustizia esigerebbe innanzitutto che il Csm, espressione più alta del governo autonomo della magistratura, cedesse sostanziose quote di sovranità decisoria ai Consigli giudiziari, organi distrettuali, ai quali sono viceversa attribuiti poteri prevalentemente di tipo istruttorio e consultivo, riservandosi in talune materie (penso, ad esempio, alle valutazioni di professionalità o ad altre competenze di minor rilievo quali le incompatibilità o gli incarichi extragiudiziari) solo un più snello e agile potere regolatorio, di coordinamento e controllo. Dovrebbe poi ispirare le sue deliberazioni, oltre che ai criteri virtuosi della chiarezza e della sintesi, oggi palesemente disattesi (basta leggere le chilometriche circolari!), a una ragionevole e responsabile flessibilità delle regole predeterminate. E ciò sulla base di valutazioni e decisioni assistite dal rigore e dalla trasparenza delle relative giustificazioni di merito, valorizzando la duplice garanzia della motivazione e dell’eventuale sindacato impugnatorio, anziché l’ossequio formale a rigidi e burocratici automatismi. L’autorevolezza del Csm sarebbe inoltre più efficacemente assicurata da una più larga presenza di giovani giuristi, anziché di magistrati di carriera, in qualità di assistenti dell’ufficio studi e delle segreterie delle diverse Commissioni.
Avvocati nei Consigli giudiziari: il tabù resiste?
Quanto ai Consigli giudiziari, ritengo che il paventato rischio di un governo autoreferenziale e corporativo dello statuto professionale dei magistrati potrebbe essere precluso dalla presenza attiva dei componenti laici - avvocati e professori universitari - a ogni genere di discussione e deliberazione. A prescindere dal riconoscimento di una maggiore o minore ampiezza del cosiddetto diritto di tribuna (che brutto termine!) e alla luce dell’esperienza vissuta, ho sempre considerato l'asimmetria della disciplina dei Consigli giudiziari 'a composizione ristretta' ingiustificata, se non addirittura mortificante per l’Avvocatura e per l’Accademia. L’indipendenza di giudizio, la correttezza dei comportamenti e la serietà dei contributi offerti dagli avvocati e dai professori, nella ricerca della soluzione più equilibrata in tema di valutazioni di professionalità, conferimento o conferma di incarichi direttivi o semi-direttivi, incompatibilità, incarichi extragiudiziari ecc. dovrebbe, di volta in volta, essere misurata sul campo e non in base ad astratte e immature logiche di tipo pregiudiziale. Sarebbe questo un passo avanti e un segnale di fiducia per il consolidamento dell’efficacia, del buon andamento e della credibilità del complessivo sistema giudiziario, in grado di sdrammatizzare conflitti ormai antistorici fra magistrati e avvocati.
Questi anni sono segnati anche dalla sproporzione fra le troppo diffuse distorsioni dell’autogoverno e del correntismo e la limitata efficacia delle risposte.
Con riguardo al sistema disciplinare, credo che sia giunto il momento di immaginare la costruzione di una diversa architettura (anche costituzionale) del relativo procedimento, che parta dalla proposta avanzata già da alcuni anni da Luciano Violante, da me condivisa nei suoi aspetti essenziali: istituire cioè un’Alta Corte di giustizia, esterna agli organi di governo autonomo di ogni magistratura, alla quale attribuire la giurisdizione disciplinare (compreso il relativo potere d’inchiesta, oggi affidato al vertice dell’ufficio del pubblico ministero) su tutti i magistrati italiani. Una sorta di Authority composta da un adeguato numero di membri, eletti - come per la Corte costituzionale - per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo da tutte le magistrature (ordinaria, amministrativa, contabile, tributaria, militare). Per un verso, non si vede la ragione di una diversità di regolamentazione sostanziale e procedurale del tessuto deontologico dei doveri, delle violazioni e delle sanzioni disciplinari per tutti coloro che svolgono comunque un’attività giurisdizionale. Per altro verso, la sicura terzietà espressa, nella sua composizione, da tale organo garantirebbe i cittadini e gli stessi incolpati da ogni apparenza di corporativismo da parte della categoria di appartenenza.